di Luigi Bartone*

 
 
Cercare di capire come cambieranno le nostre città dopo COVID-19, non è soltanto uno sforzo immaginativo e fantasioso, bensì rappresenta una sfida con la quale fare i conti. 
 
Senz’altro ci saranno alcuni aspetti della nostra vita sociale che muteranno notevolmente, ma la forma della città non cambierà. Così come non cambieranno gli spazi esterni, gli edifici con funzioni pubbliche e soprattutto non cambieranno gli spazi interni alle nostre abitazioni, almeno non immediatamente e non in senso architettonico e spaziale.
 
Cambierà invece rapidamente e sostanzialmente la nostra fruizione della città e degli edifici, nell’adozione di piccole/grandi procedure che causeranno veri e propri stravolgimenti funzionali. Li sentiremo sin da subito perché saranno legate alle funzioni ordinarie nella nostra vita, i percorsi dei pazienti per gli ospedali, una possibile rivisitazione del distanziamento nei luoghi di intrattenimento, di socialità e commerciali, la creazione di spazi di “decontaminazione” persino all’ingresso delle nostre abitazioni. Cercheremo di dunque di costruire sempre più “luoghi sicuri” e procedure dedicate.
 
Le considerazioni su questo punto sono di diversa natura. La prima è legata al carattere “temporale”: ovvero siamo stati costretti repentinamente a questo cambiamento, come quando per imparare a nuotare siamo stati “gettati” in acqua senza braccioli, affrontando la sfida della sopravvivenza. Quasi riprendendo il concetto filosofico heideggeriano di “gettatezza”. Sappiamo tutti che non è stato il mare a cambiare, ma siamo stati noi ad affrontarlo con una consapevolezza diversa dei suoi pericoli.
 
Come cambiano le procedure? Se guardiamo alla Corea del Sud, che è stata l’unica nazione ad aver imparato dalla SARS, vediamo come ha applicato in poco tempo delle rigide procedure di “emergenza” per bloccare il contagio.
Se invece guardiamo a casa nostra, l’Italia ha manifestato tutta la sua impreparazione e fragilità strutturale, seppur in un sistema sanitario e sociale funzionante.
 
La seconda considerazione è un elemento “relazionale”, che va oltre le procedure di salvaguardia della salute. Riflettendoci attentamente, la strategia di contenimento del virus annulla il contatto tra le persone, agendo quindi sul tatto che, insieme alla vista, è il senso più utilizzato. In tal modo la vista diviene in assoluto il senso principale con cui esperiamo il mondo esterno.
L’altro diviene una potenziale minaccia, colui che infetta. Escludendo inconsciamente la reciprocità nella possibilità inversa, di poter essere noi ad infettare gli altri.
Questa considerazione porta con sé un dato comunicativo, tutto ciò che è fisico è diventato digitale, le videochiamate o le call conference hanno sostituito gli aperitivi con gli amici, incontri come questi e meeting di lavoro. Sarà difficile tornare indietro da questa situazione.
 
Questo fenomeno completa la globalizzazione visiva delle relazioni, in una direzione verso cui gli strumenti tecnologici ci stavano già prepotentemente proiettando. La realtà virtuale diventerà quindi anche un elemento complementare alle attività “fisiche” assumendo la stessa valenza, di presenza e di partecipazione.
Tenendo ben presente che il tempo digitale apparirà dilatato rispetto a quello reale, tutti noi ci stanchiamo più facilmente quando vediamo un video non interessante, quindi la comunicazione continuerà a semplificare linguaggio e a ridurre i tempi d’ingaggio.
 
Concludendo, vorrei dare un consiglio su come recuperare la dimensione per vivere le nostre città in un mondo che cambia: per sconfiggere un virus invisibile è necessario mantenere le distanze, ma è indispensabile mantenere l’umanità nelle relazioni. Con i piccoli gesti quotidiani, con la vicinanza nei confronti di chi ci è vicino. Serve una cura della gentilezza e dell’affetto che si deve propagare in modo inversamente proporzionale alla distanza che ci viene imposta.
 
*architetto e comunicatore
luigibartone@gmail.com