Comunità di Connessioni inaugura la rubrica “5 domande a …”. Lo facciamo per almeno tre motivi: anzitutto per porci in ascolto di testimoni che, nei vari livelli della vita sociale, si stanno impegnando nello spazio pubblico per ricostruire la politica; poi per individuare un minimo comune denominatore di scelte e di metodi positivi e buoni che si possano tramandare da una generazione all’altra; infine connettere menti e cuori perché la forza della moltiplicazione dei legami sociali aiuti a nutrire il processo per cui è nata e vive Comunità di Connessioni.

Abbiamo rivolto le nostre prime “5 domande a…” a Pierluigi Castagnetti, nato a Reggio Emilia nel 1945, un volto noto della politica e stimato osservatore dei processi della democrazia. Allievo di Dossetti, stretto collaboratore di Benigno Zaccagnini e di Mino Martinazzoli, esponente di spicco della Democrazia Cristiana, ultimo Segretario del Partito Popolare Italiano nel 1999, ha partecipato a fondare la Margherita e l’Ulivo. Nel 2006 è stato vicepresidente della Camera dei Deputati, mentre due anni prima della conclusione della XVI legislatura ha annunciato di non ricandidarsi più al Parlamento per favorire il rinnovamento della classe politica. Attraverso suoi canali social, però, continua a offrire una lettura attenta dei processi politici.

La redazione

 

“Il credente in politica? Un uomo del suo tempo”

 

di Maria Francesca Simeoni

On. Castagnetti grazie di aver accettato di dialogare con noi. In una sua intervista rilasciata in occasione del referendum sul taglio dei parlamentari, ha dichiarato che i partiti politici di oggi non sono più quelli previsti dall’art. 49 della Costituzione. Perché? Qual è il loro stato di salute?

«Comatoso. Non hanno sedi, organi dirigenti collegiali funzionanti, non utilizzano il metodo democratico nelle decisioni interne. Alle radici del fenomeno c’è l’assenza di partecipazione reale, messa in crisi dalla rivoluzione digitale in tutte le forme associative. Il protagonismo viene esercitato dai cittadini in modo diretto, senza il filtro della sezione o del circolo. Certamente si è sviluppato un collegamento più penetrante nella periferia associativa, ma è venuta meno la partecipazione formale.
Per di più la società si è laicizzata, si è azzerato il fenomeno ideologico, dunque nella politica prevalgono gli aspetti agonistici. Le organizzazioni, adeguandosi, si sono trasformate in movimenti leaderistici, casate principesche: c’è un principe e c’è il popolo. Tutto ciò che i partiti rappresentavano, come spazio intermedio, disturba. Il principe è disturbato dalle liturgie partecipative, non ha bisogno di co-decisori, piuttosto di fedeli sostenitori. Il rapporto con il suo popolo è diretto ed il partito è divenuto sigla elettorale, macchina organizzativa a disposizione del leader. Nella visione del costituente, invece, il partito è un soggetto derivato dall’iniziativa associativa dei cittadini che detengono la soggettività primaria. È chiaro che questo spirito è stato profondamente tradito, al punto che oggi sono i partiti che costruiscono il loro popolo, non più il contrario».

Qual è il profilo del cristiano in politica oggi? Qual devono essere i ruoli e i tratti distintivi? Secondo lei c’è davvero bisogno di rifondare un partito cattolico che muova dai principi della Dottrina sociale della Chiesa?
 
«Si tratta di una domanda tutta italiana. I miei interlocutori cattolici all’estero non comprenderebbero il senso di un’osservazione di questo genere. In effetti, il cristiano impegnato in politica è come quello impegnato nella sanità, nella scuola, nella ricerca. Un cittadino come gli altri, che lavora assieme gli altri e per gli altri, rivelando l’ulteriorità che gli deriva dalla fede tramite la competenza e la profonda dedizione. Ci sono stati tempi in cui i cristiani hanno dovuto aggregarsi. Quando la condizione storica aveva impedito loro per decenni di impegnarsi in politica attraverso il Non expedit o quando il partito più rappresentativo della sconfitta del fascismo conservava vincoli internazionali con l’Unione Sovietica che rischiavano di compromettere la concezione di libertà e democrazia, c’era necessità di una presenza compatta dei cattolici. In assenza di riscatti o rischi da prevenire, il credente non può che fare politica come gli altri, senza per questo contraddire il proprio credo religioso.
Fare un partito tra simili è una tentazione, viene meno la fatica della mediazione, dell’incontro, ma in quanto tentazione deve essere respinta. Al contrario si rischierebbe di fare un partito di testimonianza. Ma la politica non è testimonianza, è strumento per acquisire il potere, col fine di realizzare un progetto. La verità è che chi partecipa al dibattito per la ricostruzione di un partito di cattolici lo fa per nostalgia, ma noi tutti abbiamo la responsabilità di vivere il nostro tempo».

La centralità della persona è stato uno dei punti fondamentali della tradizione culturale del cattolicesimo democratico. È ancora attuale? Riporre al centro la persona che contributo può dare nella ricostruzione post pandemia?
 
«La persona è tutto. L’originalità dell’apporto dei cattolici nella costruzione del modello democratico del paese è stata sintetizzata nella centralità della persona che ha prevalso sia sull’individualismo che sul collettivismo. In una bellissima lettera, Alcide De Gasperi scrive ad Anthony Eden, Primo ministro del Regno Unito nel secondo dopoguerra, che un partito di cattolici durerà fino al giorno in cui “questo nostro modo di pensare la liberà, la democrazia e la giustizia non sarà diventato patrimonio comune”. La DC è finita all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, non tanto per la vicenda di tangentopoli, ma in quanto aveva esaurito la sua funzione, perché l’idea di persona, di economia di mercato finalizzata alla tutela dei diritti, è diventata patrimonio comune.
La pandemia ci ha insegnato che ci si salva solo insieme. È crollato miseramente lo schema del “prima i nostri” perché non è risolutivo. Il Papa, nella solitudine di Piazza San Pietro durante la scorsa Settimana Santa, lo ha detto: “Siamo sulla stessa barca”, se non si salva la barca non si salva nessuno. Questa è la lezione provvidenziale della pandemia: l’unitarietà dell’umanità. Se non pensiamo di dover salvare l’altro, precludiamo a noi stessi la possibilità di essere salvati».

Viviamo in un’epoca di grandi disuguaglianze, la pandemia ha aggravato le fragilità economiche già presenti nel tessuto sociale italiano. È davvero possibile uno sviluppo economico che non lasci indietro nessuno, fondato sull’idea di economia sociale di mercato?

L’economia sociale di mercato è già nella Costituzione, si trova nei principi fondamentali ed in tutte le norme che si occupano dei rapporti economici. Il tempo che ci attende sarà difficilissimo perché la pandemia ha accentuato una contrapposizione tra garantiti e vulnerabili. In passato c’era un’articolazione della società ricca di ceti intermedi, oggi invece c’è un bipolarismo sociale tra queste due categorie in conflitto. Qualche anno fa Ermanno Gorrieri ha portato al centro del dibattito pubblico il tema della giustizia sociale; uomo della resistenza, autore di numerose opere, ha dedicato gli ultimi anni della sua vita al valore dell’uguaglianza. Oggi questo tema è quasi impronunciabile in politica, ma è indispensabile se si vuole prevenire il conflitto. L’area dei vulnerabili si è drammaticamente allargata, avendo inglobato quella gran parte del ceto medio che oggi è incapace di guardare al futuro con serenità. La sfida principale della politica sarà occuparsi di questo tema con una visione programmatica. I giovani in particolare hanno il dovere di capire come affrontare la sfida. “Non è tempo di rabberciare il presente”, vanno affrontate le radici del malessere. Occorre cimentarsi con i problemi concreti di oggi e di domani senza rifugiarsi nell’ideologia, perché vorrebbe dire fuggire dalla realtà. Solo i giovani possono farlo. Aldo Moro, Giuseppe Dossetti, erano appena trentenni quando sedevano ai banchi dell’assemblea costituente e non credo avessero tutte le risposte, ma certamente si sono interrogati su quale fosse il modo migliore per affrontare i problemi del loro tempo. Questi grandi giovani del passato ci ricordano il ruolo centrale dei giovani di oggi, non solo perché hanno le doti che tutti gli riconoscono, la passione, l’entusiasmo, la freschezza intellettuale, ma anche perché la rivoluzione può essere fatta solo da chi non sa che la rivoluzione non si può fare. I vecchi politici non riusciranno a gestire il tema del conflitto, mentre i giovani devono avere l’ambizione di cambiare il mondo.

L’emergenza sanitaria ha acceso il dibattito sull’importanza degli interventi di sostegno dell’Unione Europea, che tuttavia, ha rivelato in questa fase molte delle sue debolezze. C’è forse bisogno di un cambiamento della sua architettura a livello istituzionale? Quali prospettive nel futuro più prossimo?
 
La maggior parte dei cittadini non sa che l’Unione Europea può occuparsi solo delle materie che le sono conferite dalla sovranità dei singoli Stati e tra queste non c’è la tutela della salute. È vero, ad esempio, che la gestione dei contratti per l’acquisto dei vaccini non è stata efficace, ma è altrettanto vero che le istituzioni europee mancavano di esperienza, di competenza, di organizzazione a livello strutturale. Finché i 27 paesi membri saranno difensori ossessivi dei loro spazi di sovranità, non si potrà pensare che l’Unione supplisca alle carenze sempre più evidenti degli Stati. Il Presidente Draghi, durante l’ultimo Consiglio Europeo, ha affermato che l’uscita della Gran Bretagna ha reso in qualche modo più facile il governo dell’Unione, perché la sua presenza ostacolava strutturalmente l’evoluzione verso una progressiva devoluzione delle competenze. Ed in effetti, il Next Generation EU è un segno dei tempi. Per la prima volta l’Unione ha potuto pensare di condividere gradualmente anche il debito dei singoli Stati, con la possibilità di utilizzare un monte risorse molto importante, nell’ottica di uno sviluppo che non lascia indietro nessuno. L’Europa del prossimo futuro, dunque, è quella che avanza passo dopo passo, lentamente ma inesorabilmente, verso una maggiore integrazione. La chiave è nella gradualità del processo.