di Francesca Carenzi

Davide Maggi è professore ordinario di Economia aziendale presso il Dipartimento di Studi per l’Economia e l’Impresa dell’Università del Piemonte Orientale. Insegna Economia ed Etica presso la Facoltà Teologica di Torino. Da diversi anni si dedica allo studio dell’etica e della responsabilità sociale d’impresa, dell’economia del settore non profit e delle imprese sociali. Dal 2019 è membro del Consiglio di Amministrazione di Fondazione Cariplo, nel quale è referente per il settore Arte&Cultura. È componente del Comitato esperti dell’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Conferenza Episcopale Italiana.


Professor Maggi, grazie per essere qui a dialogare con noi. Durante la pandemia abbiamo visto che, dove è mancata una risposta veloce delle istituzioni, spesso sono stati enti territoriali, associazioni cittadine e volontari a mobilitarsi per supportare le proprie comunità e i soggetti più fragili. Quali potrebbero essere gli interventi strategici e le politiche economiche per sostenere l’azione di questi soggetti nei territori?
 
«La rapidità della risposta, la flessibilità e la capacità di immaginare nuove soluzioni sono alcune delle caratteristiche tipiche del terzo settore. Non ci deve stupire che siano emerse in questo frangente difficile. Il principio di sussidiarietà, sancito dalla nostra Costituzione, è proprio questo: i cittadini che autonomamente si mobilitano per svolgere attività di interesse generale devono essere sostenuti dalle istituzioni locali e nazionali. In questo ambito ci troviamo di fronte a due problemi. Da una parte, abbiamo il problema di “suscitare la mobilitazione solidale dei cittadini”. Intendo cioè di far sì che le persone non restino chiuse in casa, ma trovino invece piacevole ed utile unirsi ad altri per svolgere azioni che favoriscano il benessere collettivo. Dall’altra parte abbiamo il problema di come sostenere i cittadini che già hanno deciso di mobilitarsi. Credo che il primo problema non riguardi le amministrazioni e le politiche pubbliche. Sono convinto che la solidarietà e il desiderio di praticarla non possa che nascere dalla testimonianza che ci giunge da vicini, da concittadini, dalle persone di cui ci fidiamo. Solo un terzo settore accogliente e in grado di dare risposte azzeccate ai bisogni potrà mobilitare le coscienze e attivare le persone … non c’è soluzione pubblica che tenga. Un discorso diverso riguarda il secondo problema. Qui basterebbe che l’amministrazione non ostacolasse (a volte involontariamente) l’iniziativa dei cittadini, attraverso vincoli e impedimenti di natura burocratica. Servirebbe un grande progetto nazionale di informazione e trasparenza sulle organizzazioni, che aiuterebbe i cittadini a porre piena fiducia in queste istituzioni. Le difficoltà in cui ci siamo trovati per la messa in funzione del “registro unico del terzo settore” (uno strumento di trasparenza indispensabile) non sono accettabili. Sarebbe utile immaginare un grade progetto nazionale di rafforzamento organizzativo, di capacity building, delle organizzazioni di terzo settore, che le aiuti a dotarsi di risorse umane qualificate e di strumentazione adatta alle sfide del presente. Le organizzazioni sono la platea fondamentale da coinvolgere per sperimentare nuove politiche ed interventi. Bisogna però che siano in condizione di poterlo fare con personale e risorse adeguati».

A partire dagli effetti della pandemia: qual è la situazione del Terzo Settore in Italia oggi? E quale ruolo avrà il Terzo Settore nella ripartenza del Paese post-covid, anche alla luce dei fondi stanziati nel PNRR?
 
«Certamente l’impatto della pandemia è stato molto forte. Nei mesi tra marzo e giugno dello scorso anno gli enti hanno sperimentato un drastico peggioramento della loro situazione di bilancio, causata principalmente dalla riduzione dei proventi che, per l’intero anno 2020, era prevista nell’ordine del 30%. La caduta attesa dei proventi ha peggiorato molto le aspettative sull’andamento del bilancio per l’intero anno, con oltre il 60% degli enti che prevedeva di chiudere in disavanzo. La situazione ha rischiato di ripercuotersi anche sull’occupazione che, in assenza degli interventi pubblici, sarebbe diminuita in modo massiccio. Il terzo settore però non è rimasto inerte: molti enti hanno avviato strategie per riorganizzare le attività, svolgendole in sicurezza, studiando modi per realizzarle a distanza o in formato diverso (come, ad esempio, agli enti culturali e alle arti performative). Il settore ha mostrato di sapere reagire e di riuscire a immaginare nuovi interventi, che potrebbero diventare stabili in futuro e allargarne il campo di azione. Non bisogna nascondersi che la sfida è difficile: razionalizzare l’organizzazione, motivare le persone, inventare nuovi interventi per rispondere alle nuove esigenze di relazioni significative dei cittadini. Ora si apre una nuova sfida, legata alla disponibilità di nuovi fondi che arriverà con il programma Next Generation EU. Nel progetto nazionale di destinazione dei fondi (il PNRR), il terzo settore è chiamato in causa diverse volte, principalmente nei capitoli che riguardano il “capitale umano”: servizi per la disabilità e per la non autosufficienza, servizi per l’infanzia e l’istruzione, servizi per lo sport, servizio civile per i giovani. Si tratta di capitoli estremamente rilevanti per il futuro sviluppo italiano. Abbiamo ormai capito che la crescita del Paese cammina anche sulle gambe delle persone (non solo sulla quantità di cemento) e che senza capitale umano di alta qualità la crescita si fermerà. Ci è richiesto un salto di qualità. Non serve solo eseguire interventi dettati dall’amministrazione pubblica, come spesso accade ora, in un certo senso è necessario “un ritorno alle origini”. C’è bisogno di immaginare interventi che affrontino le nuove povertà in termini non emergenziali, sviluppino le competenze delle persone e diano gambe a progetti in grado di realizzarli. Non solo assistenza, ma emancipazione. Questi nuovi interventi dovranno passare attraverso la sfida della valutazione di efficacia, mostrando di essere davvero in grado di risolvere problemi. Far sì che le nuove risorse siano investimento e non solo spesa: è una sfida aperta».
 
Lei ha citato gli enti culturali: che ruolo giocherà la cultura in futuro e quali scenari si aprono per questo settore economico/lavorativo? È possibile che questo ambito benefici dell’innovazione tecnologica trovando in essa una spinta per rinascere dopo un anno così difficile?
 
«La cultura è – e continuerà ad essere – una risorsa fondamentale per il nostro territorio e per il nostro Paese. Oltre a svolgere un ruolo chiave in vari comparti con evidenti risvolti a livello sociale ed economico, ha anche importanti ricadute sul welfare e sul benessere dei cittadini. Come dimostrato da diversi studi scientifici (non ultimo quello dell’OMS di fine 2019), le attività culturali e creative promuovono il benessere fisico e psicologico della persona. Dove il trauma della pandemia ha avuto conseguenze rilevanti dal punto di vista psicologico e relazionale, la cultura può essere uno strumento centrale per la rigenerazione del rapporto con sé stessi e con gli altri. In futuro la cultura giocherà un importante ruolo nell’aggregazione sociale, aiutando a ricostruire il tessuto relazionale e il senso identitario che sono alla base di una comunità. Per questo il settore culturale può (e deve) ampiamente beneficiare dell’innovazione tecnologica. I nuovi strumenti digitali sono un mezzo efficace per ricucire il dialogo con il proprio bacino d’utenza (sgualcito dall’emergenza sanitaria), ma anche per intercettare nuovi fruitori, pensiamo ai nativi digitali che sono da sempre abituati ad utilizzare questi strumenti. Ci sono immense opportunità di ampliamento e di sviluppo del pubblico. Ma per raggiungere questo obiettivo, risulta necessaria l’internalizzazione di nuove professionalità e competenze. Il comparto culturale e creativo deve integrare le proprie competenze o, quanto meno, attivare collaborazioni con professionisti di alcuni settori ormai decisivi, come comunicazione e marketing, IT e sviluppo software. Occorre anche rivalutare il ruolo degli umanisti (i sociologi, i pedagogisti e gli storici dell’arte), che sono necessari per riformulare la narrativa dei contenuti. Un progetto che va in questa direzione è InnovaMusei. L’inziaitiva, nata da Fondazione Cariplo in collaborazione con Regione Lombardia e Unincamere, vuole aiutare i musei a ripensare il proprio modello operativo e ad affinare la propria offerta. Le conseguenze a livello economico di queste opportunità sono evidenti: il comparto culturale (che già pesa per oltre il 16% del PIL italiano) si confermerebbe un importantissimo motore per la ripartenza, sia a livello di nuove attività e iniziative, sia d’impiego di figure professionali innovative (soprattutto giovani), con ricadute positive su tutto l’indotto. La Cultura deve essere parte integrante della strategia per la ripartenza».
 
Lei è membro dell’European Business Ethics Network (EBEN), associazione no profit europea che si propone di contribuire alla diffusione della cultura dell’etica e della responsabilità economica, sociale e ambientale nelle aziende, pubbliche e private, nonché nell’ambito delle professioni e del mondo accademico. Qual è, a Suo avviso, lo stato dell’arte in Italia, quale il grado di consapevolezza, in particolar modo nel management, del ruolo sociale dell’impresa?
 
«Negli ultimi anni il contesto competitivo e sociale in cui operano le imprese è stato caratterizzato da una forte dinamicità, a causa della globalizzazione, dello sviluppo innovativo, della trasparenza richiesta e della maggiore consapevolezza da parte dei consumatori. Le imprese che puntano ad un successo forte e duraturo devono confrontarsi con nuove istanze provenienti dalla società civile e con nuovi valori di cui sono portatori tutti gli interlocutori aziendali. Si profilano nuovi obiettivi, nuove responsabilità e una tipologia di valori di carattere ambientale e sociale. Non è più sufficiente produrre beni e servizi per il pubblico. Serve che ogni impresa consideri anche le ricadute della sua attività produttiva sulla società civile, sul territorio, sul benessere dei vari interlocutori sociali e sull’ambiente. Per le organizzazioni diventa indispensabile riuscire ad integrare questi aspetti nella gestione della propria attività per comporli in un tutt’uno armonico. Nasce così l’attenzione alla responsabilità sociale dell’impresa: cercare di contemperare i propri interessi economici con interessi sociali e ambientali e creare una strategia in grado di integrare questi tre aspetti fondamentali. Il fenomeno è in espansione, prendiamo alcuni dati: nel giugno dello scorso anno si è svolta la presentazione dei dati del “IX Rapporto sull’impegno sociale delle aziende in Italia”, la rilevazione statistica condotta dall’Osservatorio Socialis. Il rapporto si apre con un dato che conferma la costante progressione del trend di crescita della diffusione delle pratiche di responsabilità sociale nelle imprese di medie e grandi dimensioni: in diciott’anni il coinvolgimento attivo delle imprese italiane è cresciuto quasi del 50%. In particolare, appaiono molto diffuse e in consolidamento progressivo le azioni di attenzione alle persone che lavorano nelle aziende. Ma ora questa nuova condotta deve estendersi dalla singola impresa a tutta la catena del valore, creando una responsabilità sociale diffusa. Tutto questo è avvenuto perché una certa cultura di impresa si è fatta strada con il tempo – anche grazie al pensiero promosso dalla Dottrina Sociale della Chiesa – ed ha aiutato a costruire un’idea di azienda capace di integrare valori diversi nelle loro formule imprenditoriali. La tentazione che vedo oggi nei dibattiti, anche a livello europeo, è quella di trasformare questa attività volontaria in direttive normative che prevedono l’adozione di formali meccanismi e di burocratizzazione della responsabilità sociale. Il rischio, così facendo, è quello di andare verso una “legislazione dell’etica”, cosa a mio avviso contraria allo spirito che anima il comportamento etico. L’etica, in questo ambito, non è da confondere né con la morale (che è scelta) né con la legge (che è imposta). L’etica richiede condivisione e, per questo, necessita di un passo oltre la morale e il diritto».

“La vita e il lavoro” è il tema di un Suo studio del 2018; con la pandemia e l’uso diffuso del telelavoro (o in alcuni casi smart-working), la vita sembra essere diventata essa stessa il lavoro. Infatti, è venuta meno la distinzione fisica dei luoghi casa/ufficio e l’assenza di vincoli esterni ha determinato, talvolta, la pretesa di una costante reperibilità e disponibilità del lavoratore. È possibile, secondo Lei, un uso di queste modalità di lavoro, non certo nuove nel nostro ordinamento, che valorizzi la vita privata, così come ci si proponeva originariamente? Quali tutele e quali opportunità per le imprese di possono ravvisare?
 
«Questa possibilità è ancora in divenire. Oggi il metodo applicato è quello del telelavoro più che il vero e proprio smart-working. Lo sviluppo di logiche “smart” in ambito aziendale non può interessare solo il lato lavoro, ma deve includere anche il lato impresa. Lo smart-working richiede necessariamente una smart-factory, ossia un’impresa in grado di organizzarsi secondo modelli di management adatti allo scopo. Lo smart-working è un elemento di una transizione, che non abbiamo ancora pienamente compreso, ma che affonda le sue radici nella crisi dei modelli strutturati di derivazione taylorista (ancora largamente dominanti) già in atto prima della pandemia. Quest’ultima ha imposto un cambio di passo sul tema, facendo emergere nuove opportunità, ma anche nuove sfide, dall’adozione di questo modello. Un’opportunità immediatamente percepibile è quella di armonizzare i tempi di vita – lavoro delle persone. Questo vantaggio, tuttavia, potrebbe nascondere un rischio derivante dalla connotazione labile dei confini tra tempi lavorativi e non. In più, se questa modalità dovesse diventare realmente un modello di lavoro generalizzato, ciò comporterebbe un parziale, ma significativo, cambiamento nelle relazioni sociali, alterando un elemento fondamentale nella vita delle persone: il bene relazionale, che spesso trova nel lavoro in presenza una delle sue espressioni. Queste situazioni richiedono norme e comportamenti coerenti in grado di dare effettivo valore ai nuovi modi di lavorare. Serve promuovere un adattamento reciproco tra le esigenze della persona e quelle del contesto organizzativo: penso al diritto alla disconnessione e alla formazione sulla salute e sicurezza del lavoro da remoto. La funzione espressiva della formazione penso possa aiutare a creare un clima più disteso e maggiormente collaborativo. Anche in questo caso, si tratta di applicare la logica dell’etica che ho richiamato prima: condividere. Credo che questo sia il modo migliore per affrontare le nuove sfide che ci accompagneranno in futuro».