La proprietà privata è il prototipo dei diritti di libertà, è infatti un’estensione del lavoro e uno strumento di tutela della persona. Rappresenta anche un valore sociale, richiamato nell’art. 42 della Costituzione, in quanto la relazione tra le persone si fonda anche mediante la fruizione “condivisa” della proprietà privata.

La funzione sociale del diritto di proprietà – così come sviluppato nella Dottrina Sociale della Chiesa ed enunciato nel dettato costituzionale -, deve essere intesa non come limite all’esercizio dello stesso, ma come l’espressione dell’esigenza di destinare le risorse economiche a beneficio della collettività. La funzione sociale del diritto di proprietà trova riconoscimento sovranazionale anche nella giurisprudenza della Corte di Giustizia europea, in quanto principio generale per il raggiungimento degli scopi dell’Unione.

Nell’immaginario collettivo si è soliti identificare la proprietà privata con i grandi patrimoni immobiliari detenuti dai fondi di investimento, non tenendo conto del reale grado di diffusione individuale. In Italia la maggior parte del patrimonio immobiliare è detenuto da persone appartenenti ad una fascia di reddito medio bassa che sono proprietarie di singoli immobili, come ad esempio la casa della propria famiglia. Questa proprietà rappresenta una fonte di sostentamento diretto e in molti casi funge da cuscinetto contro la povertà[1].

Anche le statistiche lo dimostrano. Quando il disagio abitativo è strettamente connesso al disagio sociale, le persone non “tutelate” da una proprietà immobiliare sono maggiormente esposte al rischio di impoverimento, specialmente quando un’alta percentuale del loro salario viene utilizzata per pagare l’affitto. Tale sproporzione tra la capacità di spesa dei nuclei familiari e l’importo dell’affitto è la causa principale dell’emergenza abitativa.

I governi dovrebbero attuare politiche economiche capaci di ridurre questo divario economico e sociale, immettendo nuovi immobili in locazione mediante una riqualificazione del patrimonio immobiliare pubblico[2],  e non, come invece sta avvenendo, concentrandosi sull’aumento della tassazione della proprietà. L’adozione di strumenti “tassativi”, come l’Imu (Imposta municipale propria), potrebbe determinare, paradossalmente, una minore fruizione dei beni, una contrazione del mercato immobiliare ed un aumento dei canoni di locazione, oltre ad un maggiore deterioramento del patrimonio immobiliare stesso.

Specialmente in questo momento di difficoltà economica e sociale, è necessario studiare un nuovo modello per superare il problema abitativo. In concomitanza con l’annullamento del valore commerciale degli immobili nei piccoli comuni, il gravare degli oneri fiscali costringe i piccoli proprietari a ridurre la manutenzione di quei beni che non rappresentano una fonte di reddito. L’effetto immediato è quindi un maggior numero di case sfitte e un patrimonio immobiliare sempre più deteriorato.

Si pensi al caso concreto delle seconde case nei piccoli comuni dell’entroterra – un problema molto diffuso in tutto il territorio nazionale – questo “deterioramento” avviene ad esempio, in seguito al trasferimento di una piccola abitazione di famiglia per successione o eredità. Nella medesima prospettiva di tassazione del valore patrimoniale sono da considerare gli oneri fiscali relativi ai trasferimenti immobiliari.

In Italia, le abitazioni locate da parte di persone fisiche sono circa 6 milioni, pari al numero degli immobili sfitti[3]. I proprietari di quest’ultimi preferiscono detenere degli immobili liberi senza percepire redditi anziché affidarli a terzi in locazione. L’inserimento di questi beni sul mercato delle locazioni risolverebbe immediatamente l’enorme problema di disagio abitativo presente in tutto il territorio italiano, infatti ad oggi sono 650.000 le famiglie in attesa per l’assegnazione di una casa popolare.

Dall’analisi condotta sul perché esista questo mismatch nel mercato degli affitti, si è ricavato che pesino fattori riconducibili ad una generale sfiducia dei cittadini nell’efficienza dello Stato, determinata dalla complessità della burocrazia e dalla mancanza di certezza sui tempi e sulle procedure di sfratto. Questa insicurezza rappresenta un importante disincentivo per i proprietari, i quali, nel caso in cui decidano di mettere l’immobile sul mercato, cercano maggiori tutele “preventive”, proponendo contratti di locazione più onerosi e richiedendo gravose garanzie accessorie come caparre e fideiussioni.

L’incertezza sociale causata dalla pandemia, ha avuto riverberi anche nel mercato delle locazioni. Si fa riferimento in particolare al blocco indiscriminato delle liberazioni degli immobili introdotto dal Governo e approvato dal Parlamento, grazie al quale per l’intero 2020, sono stati sospesi non solo gli sfratti derivanti da problemi economici, ma anche quelli finalizzati all’allontanamento dall’abitazione del coniuge violento. Questa sospensione, ad oggi ancora in essere, si ritiene che causerà, alla fine del periodo di pandemia, un ulteriore deterioramento del livello di fiducia tra le parti.

È prevedibile che i proprietari, dopo aver subito una lunga sospensione del diritto di godere del bene, in termini economici – non percependo i canoni locativi – e in termini materiali – non potendo agire con misure di sfratto –, preferiranno togliere dal mercato delle locazioni i propri immobili, non avendo misure efficaci di tutela in caso di inadempimento.

Lo Stato può attivare dei meccanismi economici e procedurali capaci di rinsaldare la fiducia tra le parti. Occorre però introdurre degli incentivi fiscali per gli immobili dati in affitto a prezzi calmierati rispetto a quelli di mercato. Per fare ciò, ad esempio, sarebbe necessario riformare la “cedolare secca”, garantendo un’estensione di questo istituto a tutti gli immobili a condizione che vengano dati in locazione ai prezzi calmierati, definiti in base alle indicazioni delle associazioni di categoria attraverso un canone concordato. Inoltre agli immobili dati in affitto con questa modalità dovrebbe essere riconosciuta l’esenzione dal pagamento dell’Imu.

Tali contratti d’affitto dovrebbero, inoltre, prevedere maggiori meccanismi di tutela vincolanti tra le parti, come ad esempio la previsione che il proprietario consenta la sospensione del pagamento dei canoni per un periodo concordato in caso di difficoltà; che l’affittuario si impegni a lasciare l’immobile entro un periodo definito. In aggiunta a tali previsioni, anche ai fini della lotta al sommerso, sarebbe auspicabile prevedere che il pagamento dei canoni d’affitto possa avvenire solamente con modalità tracciabili.

In caso di inadempimento del conduttore per il mancato pagamento dovrebbero essere previste procedure semplificate per il rilascio dell’immobile facendo valere, ad esempio, il contratto di locazione registrato quale titolo esecutivo. L’accettazione di una maggiore flessibilità per l’uscita dall’immobile annullerebbe il problema degli sfratti, che solo nel 2019 ha riguardato 50.000 esecuzioni.

Le misure sopra richiamate potrebbero determinare concreti vantaggi economici nella conclusione di contratti di locazione “tutelati” e al contempo, consentirebbero un riconoscimento “istituzionalizzato” dei casi inadempimento per difficoltà economiche, che potrebbero essere assistiti da garanzie e disponibilità dei fondi di sostegno agli affitti e per la morosità incolpevole. La previsione di prezzi calmierati per le locazioni, la semplificazione degli strumenti e l’introduzione di tempi certi e adeguati per la liberazione dell’immobile, renderanno più flessibile e aperto il mercato delle locazioni.

Queste misure, se introdotte, consentirebbero l’aumento del numero degli immobili immessi nel mercato delle locazioni e il conseguente abbassamento dei canoni. Il mancato pagamento dell’Imu sarebbe bilanciato dal maggiore gettito a favore dello Stato in virtù della tassazione dei redditi percepiti dal proprietario locatore. Ma c’è di più: un’azione così determinata potrebbe ridare nuova vita al patrimonio edilizio non utilizzato, anche diminuendo le aliquote di tassazione per gli acquirenti nelle compravendite di immobili abbandonati, non locati, acquisiti all’asta o a seguito dismissioni pubbliche.

Tutto questo servirà a ricostruire un patto sociale per la proprietà privata. Un accordo che vedrebbe lo Stato nel ruolo fondamentale di garante, con l’introduzione di meccanismi capaci di riattivare un rapporto di fiducia e di tutela per entrambe le parti in causa.

[1]Nel nostro Paese, il 23% dei proprietari ha un reddito non superiore a 10 mila euro; il 45% tra 10 mila e 26 mila; il 26% tra 26 mila e 55 mila e infine solo il 6% ha un reddito superiore a 55 mila euro. Ed ancora, l’82% dei proprietari percepisce un reddito da lavoro dipendente o da pensione”.  “Gli immobili in Italia”, Agenzia delle Entrate, pp. 82-84, in https://www1.finanze.gov.it/finanze3/immobili/contenuti/immobili_2019.pdf)
[2] SOLE 24 ORE, “Edilizia sociale, in Italia 750mila immobili abbandonati da rigenerare, 2019”, https://www.ilsole24ore.com/art/edilizia-sociale-italia-750mila-immobili-abbandonati-rigenerare-AC2Wfvs
[3] Gli immobili in Italia 2019, Ministero delle Finanze – Agenzie delle Entrate https://www1.finanze.gov.it/finanze3/immobili/contenuti/immobili_2019.pdf