di Gianluca Porta

Virginia Stagni, nasce a Bologna ma da anni vive a Londra, ha studiato in Bocconi (Milano) e alla London School of Economics (Londra). È Head of Business Development Manager e FT Talent Director per il Financial Times, nonché la manager più giovane nella storia del FT, dove lavora dal 2017. Il suo ruolo consiste nel ricercare nuove idee di business e opportunità di crescita che riflettono la sostenibilità del modello di business del Financial Times, con particolare attenzione ai futuri lettori (specialmente donne e under 30) e all’acquisizione di giovani talenti per l’azienda. Fa parte della lista Forbes Under 30 (2021) e Fortune 40 Under 40 (2021).

 

Quando, qualche mese fa, Marco Damilano si è dimesso da direttore de L’Espresso, nella sua lettera ricordava che il tramonto della stampa italiana – e forse della stampa in generale – tocca da vicino la tenuta delle istituzioni democratiche. Nelle tue interviste tu hai parlato tanto di come salvare il giornalismo e di come avvicinare i giovani al mondo istituzionale (e forse percepito come troppo elitario) dei giornali: quale credi che sia il rapporto tra stampa e democrazia?

Il giornalismo dovrebbe rimanere il baluardo della democrazia. Il giornalismo di qualità offre un range di opinioni strutturate e di analisi in grado di fornire al lettore la possibilità di formarsi, di imparare e, quindi, di crearsi la propria opinione su a un tema. L’aspetto democratico del giornalismo è proprio questo: la possibilità di formarsi. Questo compito dovrebbe essere alle fondamenta del perché si faccia un giornale nel 2022. Inoltre, senza avere chiara questa funziona sociale (e educativa), né il giornalismo né il mestiere del giornalista potrebbero esistere.

Siamo sommersi di informazioni e viviamo in un mondo complesso e rumoroso, il giornalismo offre un percorso di lettura e di selezione fatto da professionisti. Offre una scelta, aiuta nella selezione di cosa è importante leggere o non leggere. Questo vuol dire fare bene il giornalista, e qui sta la sua importanza per la democrazia. Pe salvare il giornalismo e la democrazia occorre rendere accessibili i contenuti di qualità, che forse vengono percepiti come aulici. Rendere accessibile non vuole dire semplificare o banalizzare, ma fare in modo che tutti possano capire.

Un altro compito del giornalismo è dare sempre più strumenti alle persone per essere confidenti e pronte nel leggere un contenuto. In questo senso, il giornalismo di qualità ha un risvolto educativo e politico. Questo non vuol dire che il giornalista parla dall’alto, dalla sua “torre d’avorio”, ed elargisce sapienza, ma che il giornale offre informazioni utili per sapere come investire, come votare e cosa sta succedendo nel mondo. È uno strumento delicato, che dipende molto da chi lo usa e chi ci fa cosa. Con “giornale” io intendo un contenitore di informazioni selezionate da un editorial board,l’insieme di persone che decide le notizie del giorno e la loro gerarchia.

Da gruppo editoriale a media company e, forse, tech company, da lettori a users e pro-users (users e producer, ndr). Qual è il confine tra professionisti e reporter per hobby? Ha ancora senso questa distinzione oggi?

Mi piace usare quel termine, pro-user, per descrivere dove sta andando il mercato e per provare a spiegare cosa sta succedendo alla nostra audience finale. Pro-users cattura il fatto che nostri lettori sono sempre più proattivi e che ci scelgono. A differenza del giornalista, però, il pro-user non lo fa di mestiere. Questo vuole dire che il giornalista è un professionista, ha una sua deontologia, anni di studio e di esperienza e un metodo di lavoro. In un certo senso, il giornalista è giornalista per vocazione: fare quello è il suo “meaning in life”, e lo fa con passione e cura.

Il gruppo editoriale dovrebbe aspirare a diventare una tech company per motivi di efficienza e efficacia. Questo vuol anche dire costruire un brand, rendere il proprio tone of voice riconoscibile. Per esempio, a me piace molto il modello The Economist, che quasi non mette il nome dei giornalisti. È il giornale che parla, non il singolo. Secondo me anche in questo sta la differenza fra giornalista professionista e chi lo fa per hobby. Allo stesso tempo, oggi stiamo creando uno star system intorno ai giornalisti, che deve per forza creare contenuto social, diventare un influencer, sapere fare dei video, dare la propria opinione su Twitter… Quello che a me interessa è che faccia bene il suo lavoro, che si concentri nella verifica e nel vaglio delle fonti, nella ricerca dei fatti e devo dargli tutti i fondi necessari affinché svolga al meglio questi compiti. Per questi motivi per fare giornalismo veramente di qualità è indispensabile un business model solido.

Scegliere quale giornale leggere e come informarsi sta diventando sempre di più una scelta identitaria. Il lettore non cerca più solo i fatti, ma una certa interpretazione, un certo giudizio. Si può dire che l’informazione stia diventando sempre di più un brand? Questo non favorisce la creazione di “bolle” in cui si sente solo quello che si vuole sentire, togliendo la possibilità di un confronto serio con chi la pensa in modo diverso?

Non credo che questo rischio ci sia perché il giornale, a differenza delle piattaforme social, non è un aggregatore di voci tutte uguali, fatte con lo stampino. In un giornale c’è un editorial board che decide i contenuti e che lavora per rendere la notizia fruibile ai propri lettori.

Già negli anni ’80 c’era branding: leggere il manifesto o girare con Repubblica era uno status symbol, ovvero dicevano qualcosa del lettore. L’essere di sinistra, di centro, democristiano si poteva capire già dal giornale. La stessa cosa, in un certo senso, è rimasta oggi, ed è importante che venga conservata. Un giornale non deve piacere a tutti, non offre solo opinioni e scelta assoluta come fanno invece i social. In quel caso, le scelte dell’utente incrociano un algoritmo che continua a mostrare solo sempre più di quello che ti piace. Secondo me il bello del giornalismo di qualità è che, accanto alla linea editoriale propria di ogni giornale, offre la possibilità di una scoperta, una serendipity. Il lettore paga per questo servizio aggiuntivo, per il piacere di trovare qualcosa di diverso da quello che stava cercando.

Oggi la moneta è l’attenzione e il giornale, a differenza di Facebook, è un contenuto a pagamento. Acquistare un giornale è molto diverso dall’aprire un social network. Il giornale sfida il lettore, richiede tempo e pazienza. Io voglio creare un prodotto che venga scelto, non che diventi un automatismo come il controllare Facebook. Il lettore deve scegliere di leggere il giornale, deve essere qualcosa che fa nel momento giusto, nel luogo giusto, con il format e i contenuti giusti per lui. Sui social non si sceglie, le cose appaiano. Il giornale, e il giornalismo di qualità, intesse una relazione con il lettore, e su quello si crea lealtà e fedeltà al marchio.

Il motto del Financial Times è “Without fear, without favor”, senza paura e senza favoritismi. È possibile riportare “solo i fatti”?

Posso risponderti solo come Virginia, non come Financial Times. I giornali dovrebbero essere basati su fatti e fonti certi. Il giornalismo, in un certo senso, è una bozza della storia: non vuoi che ci siano fake news in questa prima stesura. Le sovrastrutture ci saranno sempre, in questo campo la purezza è impossibile, non siamo scienza. Il giornalismo, come dicevamo prima, è uno strumento della democrazia, fatto da uomini e donne e, come tutti i prodotti culturali, è complesso. Le esigenze della cultura, della filosofia, della riflessione e quelle del mercato, per tradizione, spingono in direzione opposta. Ma questi aspetti, quello teorico e quello legato all’applicabilità, convivono e coesistono in qualsiasi processo culturale. Per questo motivo c’è bisogno di persone con sensibilità estetica e un po’ di pragmatismo, dei profili ibridi. Allo stesso tempo, quando viene espressa un’opinione, occorre specificare che è un’opinione: la “colonna” e la “lettera all’editore” avevano come funzione l’agevolazione dello scambio diretto di opinioni con la comunità. Ma, in quei casi, era chiaro cosa era fattuale e cosa no, c’è sempre stata una distinzione.

Tra i progetti che hai iniziato, sono rimasto particolarmente colpito dal Financial Times Challenge. Cosa vuol dire scommettere sui giovani in modo non ingenuo? Come può portare a un cambiamento duraturo e diffuso?

Essenzialmente, si tratta di aprire le porte della nostra azienda per avvicinare i giovani a questo mondo. L’azienda è una riproduzione della società reale, fatta dall’incontro tra persone e dalla loro interazione. In maniera olivettiana potremmo dire che noi siamo una squadra fatta da persone che vogliono creare cose belle insieme. Questo spirito, questa dimensione artigianale, quasi da bottega, io credo si sia un po’ persa. Proprio per questo motivo mi piacerebbe fare delle cose che durino, con una mentalità un po’ imprenditoriale. Questa mentalità, però, non deve averla solo il CEO, ma occorre che sia diffusa e sia di tutti, perché tutti lavoriamo a una causa comune. Allo stesso tempo, l’idea dietro FT Challenge è semplice: non voglio dare ai giovani 15 minuti di celebrità in cui presento la loro idea e basta, ma voglio fare dei progetti con loro. Lavorando assieme, ci conosciamo e, così facendo, si crea un network. Alla fine, quindi, quando io, datore di lavoro, ho una posizione aperta, penso a te. Tu, che stai cercando lavoro, pensi a me come azienda in cui formarti e crescere. Ma può succedere anche che io ti faccia una proposta a cui tu non avevi pensato, e la faccio a te perché ci siamo conosciuti e abbiamo già collaborato, e ti mostro che quella cosa potrebbe essere nelle tue corde. Si tratta di umanizzare il processo di selezione e assunzione, scommettendo sulle relazioni e sulla possibilità di formarsi.