Presentato in concorso al Festival di Venezia 2023 e vincitore del Premio speciale della giuria, Green Border di Agnieszka Holland racconta l’immigrazione, sviluppando il suo film nella zona di confine tra la Polonia e la Bielorussia.
L’autore si impegna a denunciare il dolore ed i desideri dei migranti con un linguaggio estremamente duro, diretto, esplicito.
Diviso in quattro capitoli più un epilogo, il lungometraggio vede al centro della prima sezione una famiglia di rifugiati siriani (padre, madre, tre figli piccoli e nonno paterno) insieme ad un’insegnante afghana, tutti diretti a Minsk per poi provare ad arrivare in Europa attraversando il confine polacco.
La foresta sul confine polacco-bielorusso rappresenta l’attesa e la speranza di nuova vita. Sull’aereo che li sta portando nella capitale bielorussa, Nur (in persiano ‘luce’), il più grande dei fratellini, vorrebbe scorgere il panorama dal finestrino, ma tutto è offuscato da nuvole che impediscono di vedere il panorama sperato, quasi simbolo di quello che l’intero gruppo vivrà a breve.
Infatti, i migranti, percorrendo la foresta, riescono ad attraversare la linea del confine polacco, con una natura armonica che pare sostenerli nel loro viaggio di speranza.
Tuttavia, i protagonisti rimangono isolati, intrappolati in uno spazio ai margini da cui non riescono ad uscire. La stessa natura che sembrava aiutarli, adesso appare come una barriera invalicabile.
Scoperti dai soldati polacchi vengono immediatamente respinti oltre il confine appena passato, dove ad attenderli c’è l’esercito bielorusso pronto a rimandarli dall’altra parte della frontiera, non prima di averli fatti oggetto di prepotenza e maltrattamenti, con pestaggi gratuiti, sottrazione del denaro e continue mortificazioni.
Inizia così un continuo rimpallo da una parte all’altra del confine in un crescendo di crudeltà che sottrae ogni dignità ai protagonisti, ridotti a meri oggetti.
Le parti successive della pellicola spostano il centro dell’attenzione su persone che si trovano ad incrociare le vicissitudini dei migrati, un soldato, un gruppo di attivisti ed una psicologa, i quali, posti davanti alla cruda verità della sofferenza e della speranza dei profughi, ripensano il proprio rapporto con l’altro, mettendo in gioco le proprie paure e preconcetti.
Il film denuncia le polarizzazioni politiche su posizioni estreme, criticando i governi che si limitano per lo più ad un mero controllo dei confini, senza mai affrontare nella sua reale complessità la questione né tantomeno cogliendo la vera portata a livello globale e locale del fenomeno migratorio.
Emblematica una delle ultime scene del film, che mostra il piccolo gruppo di immigrati, affamati e oramai privati di ogni cosa, seduti sul ciglio di una strada sotto un muro scrostato su cui è dipinta la bandiera dell’Unione Europea, quasi in attesa di una risposta dalle istituzioni, che non arriverà mai. Gli immigrati vengono così lasciati ai margini, emarginati appunto, protagonisti di quella cultura dello scarto, più volte additata da papa Francesco come uno dei veri pericoli della società moderna.