di Vincenzo Pugliese
 
Il 7 febbraio scorso, durante la fase del toto-nomi governativo, Roberto Cingolani presentava il “Manifesto per la sobrietà digitale” su L’Espresso. Quasi nessuno poteva ipotizzare che sarebbe diventato il biglietto da visita del Ministro della Repubblica Italiana per la transizione ecologica. Un articolo che, sin dalle prime righe, desta crescente interesse perché l’autore, nell’affrontare con grande meticolosità il tema dell’impatto ambientale e delle tecnologie digitali, pone in risalto valori corrispondenti a consumi energetici ed economici, sostenendo la necessità di svolgere una «riflessione di natura culturale ed antropologica». 
 
Quella che, sostanzialmente, è declinabile in termini di discernimento: un’attenta analisi di ciò che muove le nostre azioni, per arrivare a comprendere i reali effetti, e dunque il male, che conseguono alla pubblicazione di milioni di post non sempre utili, e il bene che, invece, si realizza in termini di lotta al “debito cognitivo” e nella promozione della transazione ecologica verso una società sostenibile. La concezione giuridica dell’ambiente è orientata verso il consolidamento della tesi secondo cui è da ritenersi superata la qualificazione del diritto dell’ambiente in termini di diritto amministrativo speciale. In questo senso, la normativa ambientale diviene prioritaria, un unicum e non più una autonoma disciplina degli interessi pubblici connessi alla bonifica di siti inquinati o al governo del territorio. 
 
Quindi una materia trasversale e non più con una rilevanza incidentale; si scinde in valorizzazione e tutela del territorio con diversi ambiti di competenza suddivisi fra lo Stato e le Regioni. La politica a tale proposito, complice la crisi dei corpi intermedi, sconta in questo campo un ritardo di vent’anni, mentre, ad onor del vero, oltretevere è stata addirittura anticipata. A sei anni dalla pubblicazione dell’enciclica Laudato Sì di Papa Francesco, emerge chiaramente l’urgenza di una “ecologia integrale” e la lotta contro il modello di sviluppo “tecnocratico” (non “tecnologico”), la necessità di approcciarsi a sistemi complessi con la consapevolezza che tutto è in relazione, tutto è collegato, tutto è connesso. I tempi sono maturi per l’istituzione di un Ministero della transizione ecologica e tale operazione non è liquidabile come un banale cambio di nome del dicastero, perché a questo punto l’asticella delle aspettative sale notevolmente. Non basta prendere atto del carattere interdisciplinare dell’ambiente, ma bisogna riempire la cassetta con “i nuovi attrezzi green”
 
Il primo indispensabile strumento è la competenza intesa sia come capacità/conoscenza della materia, che nel senso della legittimità di un ufficio a svolgere una determinata funzione amministrativa. Sembra riduttivo o tranchant, passare da un approccio visionario a quello più pratico, ma la transizione ecologica procede a suon di atti. Prima di emettere un provvedimento, spesso si richiede un parere legale, magari si convoca una riunione allargata, ma soprattutto contiene almeno un paio di firme. Le carte passano quindi da un ufficio all’altro e i tempi del procedimento si allungano a danno degli interessati. Per trasformare in realtà un nuovo modello di mobilità, ovvero di produzione energetica, è necessario intervenire con misure mirate all’innalzamento del livello di formazione del personale della PA. Negli ultimi decenni l’investimento in formazione è stato sostituito in esternalizzazioni delle attività e degli studi alle grandi società di consulenza.  Non trovare i super “esperti” nei ministeri, pagando invece mega società di consulenza internazionali, è un grande errore. Idem per i piani più bassi del Palazzo, dove si sono accumulati 640 progetti in attesa di un provvedimento di VIA (Valutazione dell’Impatto Ambientale). È auspicabile elaborare un paradigma lavorativo moderno che attragga professionisti e, soprattutto, li renda orgogliosi di prestare servizi allo Stato. 
 
Il secondo strumento è rappresentato dagli appalti pubblici. La transizione ecologica della società implica, ad esempio, far circolare autobus ad idrogeno per le strade di una città. Tale scelta, per il decisore pubblico significa, tra le varie cose, progettare un sistema di mobilità comunale, realizzare un parcheggio adeguato ed acquistare i veicoli di “ultima generazione”. Inoltre, qualora nessuna impresa costruisca bus con quelle determinate caratteristiche, evidentemente bisogna indurre il mercato a produrli. Per portare a termine questa operazione, approssimativamente, sono necessarie almeno tre gare d’appalto: servizi di progettazione, partenariato pubblico privato, partenariato per l’innovazione. Considerando che bisogna replicare il modello di mobilità sostenibile in tutte le città italiane, si comprende bene l’importanza strategica dei contratti pubblici. Imparare ad usare bene gli appalti è fondamentale. Essi sono l’unico strumento idoneo a trasformare finanziamenti in mezzi di trasporto, ovvero per digitalizzare il ciclo integrato delle acque e dei rifiuti (quindi, innovazioni di prodotto e processo). 
 
Questo paradigma trova fondamento in tre condizioni. In primis, la conoscenza da parte dei dipendenti pubblici del complesso sistema degli acquisti pubblici. Il basso livello di formazione dei buyer di Stato li porta spesso “a fare come hanno sempre fatto” e ciò comporta il mancato utilizzo dei (pochi) criteri ambientali minimi (nei disciplinari di gara) e un maggiore tasso di corruzione. Il green public procurement è realtà, ma poche stazioni appaltanti, soprattutto le piccole, lo sanno. La soluzione a questo grande problema è legata alla formazione del personale e si chiama “procurement manager”: professionisti degli acquisti pubblici sottoposti a carriera, come militari o magistrati, capaci di gestire il procedimento amministrativo sburocratizzandolo. Segue la semplificazione. Cosa si può fare nell’immediato? Un esempio potrebbe essere la qualificazione delle stazioni appaltanti, prevista dall’art.38 del codice degli Appalti e mai attuata. Ciò consentirebbe di realizzare un modello organizzativo decentrato, macro-territoriale e retto da professionisti, che dia respiro alle PMI, vero e proprio tessuto connettivo nazionale ed europeo. Quella norma in quattro anni, purtroppo, è rimasta inattuata, perché toglie una fetta di potere a sindaci, presidi, presidenti di enti locali, ecc.
 
Terzo elemento: la progettazione di un mercato interno. Gli appalti sono una leva economica importantissima. Devono essere intesi come strumenti diretti a “procurare valore”. Uno “Stato innovatore” più che dare finanziamenti a pioggia, domanda/acquista lavori, beni e servizi di qualità, per ricevere offerte innovative dai privati. Una domanda pubblica di qualità produrrà inevitabilmente offerte private innovative. È in questo quadro che si inserisce l’urgenza di elaborare una strategia ambientale concreta, che abbia i tratti di una riforma “retina”. In ballo c’è una transizione epocale, che trova fondamento sulla questione esistenziale posta dal Pontefice: «che tipo di mondo lasceremo in eredità».