di Vincenzo Rosati*

 
 
Caro Prometeo,
 
leggendo le amare considerazioni in un’operetta di Leopardi (La scommessa di Prometeo[1]) non posso che stringermi a te e alla umanità che tu tanto ami.
Il poeta racconta che un giorno nella gara delle più perfette invenzioni dell’Olimpo tu proponesti l’essere umano come la trovata più lodevole di tutte. La giuria delle Muse ti tenne in poca considerazione, ma tu non ti tirasti indietro e anzi scommettesti di aver ragione.
 
Così preso il tuo amico Momo lo portasti in giro per le cinque terre del mondo come testimone della grandezza umana in cui ti saresti imbattuto. Purtroppo l’inizio non fu dei migliori. Nella prima terra, quella di Papaion, trovi una stirpe di uomini primitivi che si nutre abominevolmente di carne umana, anzi gli stessi padri di famiglia magiano i propri piccoli insieme alle madri, dopo averli ben pasciuti e ingrassati. Tu, allora, disgustato da quella specie di umanità, fuggi via e insieme con il tuo amico volate in Asia, tentando miglior fortuna. Qua giunti, vedete una pira pronta al fuoco e una donna in cima ad essa che danzando si appresta alla morte. In cuor tuo speri che sia una nuova eroina che, per motivo di qualche oracolo, si immolasse per la sua patria. Ma, ahimè, quella donna si brucia viva perché così era costume delle donne locali quando morivano i loro mariti, peraltro quasi sempre tenuti in odio.
 
Il tuo amico Momo ti interroga se mai ti fossi aspettato che il fuoco che tu donasti agli uomini fosse stato utile ad alcuni per cucinarsi a vicenda, ad altri per ardersi vivi. Tu replichi che non è cosa giusta giudicar la natura degli uomini vedendo quella dei popoli barbari, e prometti che tra gli uomini civili si sarebbero ammirate cose degne di stupore. Ciononostante, Momo ti rimprovera dicendo che l’umanità da te creata ha perso la sua originaria nobiltà; sembrerebbe anzi non la più perfetta, ma la più imperfetta invenzione dell’Olimpo.
Ti salva il fatto che, mentre discutete, arrivate in volo nella terza terra, la civile Europa. Prese le sembianze umane, vi aggiungete alla folla di gente che si accalca alla porta di una casa privata. Entrati, vi si mostra un’immagine tetra: un uomo sdraiato, ferito al petto e morto, come morti i due fanciulli accanto a lui. Il servitore di quella casa vi racconta che il suo padrone ha ucciso sé e i suoi filgliuoli. Tu chiedi quale tragedia mai l’avesse portato a tanto, ma il domestico rivela che quell’uomo non per povertà, non per amor si uccise, ma per tedio della vita!! I giudici intanto arrivano sul posto, ansiosi di sapere se quell’uomo fosse impazzito, perché in quel caso i suoi beni sarebbero andati nelle casse statali. Sconvolto un’altra volta dalla tua creatura, rimani triste e con la delusione nel cuore. Non osi continuare il tuo viaggio, scoprendo chissà quali altre nefandezze di quegli uomini che credevi perfetti, ma paghi la scommessa e torni a casa.
 
Ma io voglio consolarti, caro Prometeo. Ho letto e riconosciuto la tua sincera volontà di stare accanto agli uomini, me l’hanno raccontato Esiodo[2], Eschilo[3] e molti altri. Loro ti descrivono come un coraggioso ribelle che rischiò tutto per render gli uomini più forti e felici. Il tuo dono, com’è noto, fu il fuoco, che spalancò la porta alla techne (τέχνη), l’arte che crea (τέχνη<τεκτ-αίνω “creare”), che avrebbe dovuto portarci ad un felice controllo del mondo. Invece, questa illimitata libertà di creare ha condotto a uno sviluppo violento e disordinato che oggi, più che mai, sta mettendo irrimediabilmente in pericolo il pianeta e l’umanità.
Questo potere che tu ci hai concesso, ci ha resi dei Frankenstein che perdono potere sulle proprie creazioni, le quali, dapprima apparentemente utili e benefiche, si rivelano presto mostri indomabili. Non voglio demonizzare la tecnica quasi fosse un dono avvelenato, anzi lodo le invenzioni che hanno rinnovato il nostro modo di vivere e di pensare, ma il sapere materiale (ὑλικὴ σοφία), non potrà mai portare al bene comune se non sarà accompagnato dalla saggezza umana (νθρωπίνη σοφία[4]), che solo conduce alla massima fioritura dell’uomo. In altre parole, la competenza scientifica deve confrontarsi con una visione critica dell’uomo, i pragmatici con i filosofi.
 
I sistemi economici che abbiamo creato regnano incontrastati e le manovre politiche si limitano oramai alla sola regolamentazione di questi. Lo stesso vale per le invenzioni volte al nostro benessere che, seppur utili in un primo momento, si stanno rivelando altamente nocive e dannose nel lungo periodo. Mi domando allora: perché oltre alla capacità del fare, la techne, non ci hai donato quell’arte di cui porti il nome, ovvero la facoltà di prevedere (Prometeo>Προμηθεύς> προ-μανθάνω lett. “imparare prima”)? Ascolta questa mia preghiera: portaci non più il fuoco della techne, ma la luce della conoscenza. Illustraci come prevedere gli effetti delle nostre opere, come umanizzare il sapere, ovvero renderlo a misura d’uomo, per evitare il suo capovolgimento e la fine della più bella invenzione dell’Olimpo.
 
Tuo,
Vincenzo Rosati
 
 
*Dottore in Filologia, Tradizione e Cultura Classica
vinceenzorosati@gmail.com
 
 
[1] G. Leopardi, La scommessa di Prometeo, in «Operette morali­­­­»­­­­­, op. IX.
[2] Esiodo, Teogonia, ed. G. Ricciardelli, Mondadori, 2018, vv. 507-570.
[3] Eschilo, Prometeo incatenato. Con frammenti della trilogia, ed. E. Mandruzzato, BUR, 2004.
[4] Platone, Apologia di Socrate, ed. G. Reale, Bompiani, 2000, 20d.