di Giulio Stolfi

Sono gli anni dell’angoscia: l’imprevedibile e l’impreveduto abitano gli uomini e le donne. Dai social emergono inquietudini collettive, elaborate e restituite ad uno stato più o meno gassoso. Dagli spazi deboli della cultura si riafferma che il “mondo sia (di nuovo) completamente cambiato”, a distanza di soli due anni. L’invasione russa – definita “il più grande conflitto convenzionale armato della Seconda Guerra Mondiale” – ci restituisce sulle rive della vita la memoria delle guerre in Corea, quella del Vietnam, o il pluriennale scontro fra Iran e Iraq, il conflitto dei Balcani o quelli “seriali” quali quelli arabo-israeliani e poi israelo-palestinesi e indo-pakistani[1] o ancora la guerra a bassa intensità in Crimea e nelle martoriate terre del bacino del Donec fin dal 2014. Otto anni fa.

Ma c’è di più, l’ingresso dei carri armati russi in territorio ucraino del 24 febbraio scorso sta cambiando l’economia globale fino a toccare il sistema Italia. È lo shock della guerra sull’economia.

L’interim report dell’OCSE sulle prospettive economiche pubblicato il 16 marzo scorso ha rappresentato uno dei primi e autorevoli, tentativi di coagulare valutazioni precise su ciò che sta accadendo. Le sue pagine sono (non stupisce) molto poco confortanti: in particolare, viene evidenziato che l’economia mondiale all’aprirsi dell’anno in corso sembrava, in prospettiva, incamminarsi lungo un sentiero di robusta ripresa post-covid, ma che questo sentiero è stato bruscamente interrotto dalla guerra: conseguentemente, viene in risalto una caduta delle stime di crescita del PIL globale e il contemporaneo aumento delle pressioni inflazionistiche (nell’anno successivo all’inizio della guerra, l’OCSE stima un crollo dell’1% della crescita e un innalzamento del 2,5% dell’inflazione).

Allo stesso modo, si mette l’accento sulle assai poco tranquillizzanti conseguenze di lungo termine: aumento generalizzato delle spese militari; significativi impatti nel campo delle commodities, in special modo in relazione alla struttura dei mercati dell’energia; ancora, evoluzioni ancora tutte da approfondire anche in relazione all’architettura finanziaria e della produzione industriale globale. Vale la pena citare: “Una rinnovata divisione del mondo in blocchi separati da barriere sacrificherebbe diversi dei vantaggi conseguiti in virtù della specializzazione, delle economie di scala e della diffusione delle informazioni e del know-how. L’esclusione [della Russia, ndr] dal sistema SWIFT potrebbe accelerare gli sforzi nello sviluppare alternative. Ciò, a sua volta, diminuirebbe i guadagni in termini di efficienza che derivano dall’avere un unico sistema globale, e potenzialmente ridurrebbe il ruolo dominante del dollaro nei mercati finanziari e nei pagamenti cross-border”.

È, inoltre, un fatto universalmente riconosciuto che l’area in assoluto più duramente colpita sia, e sarà (anche questa volta?) proprio l’Europa, ed in particolare i Paesi che appartengono all’Unione europea: noi. Il Vecchio continente ha i legami più forti di dipendenza reciproca con la Russia, grande fornitore di energia fossile (non solo il gas, ma anche petrolio e carbone: le quote di approvvigionamento russo sul totale dei diversi fabbisogni nazionali dei paesi UE sono illustrate sempre nel già citato rapporto OCSE). Ciò implica una serie di shock amplificati sia in termini di abbassamento delle aspettative di crescita, sia in termini di innalzamento dell’inflazione, con stime diversificate a seconda della natura più o meno intensa del deterioramento delle attuali relazioni commerciali (sanzioni ulteriori, possibili diminuzioni o blocco totale delle forniture) e della reazione più o meno scoraggiata e irrequieta dei mercati.

Venerdì 8 marzo, il Governo italiano ha presentato al Parlamento il DEF (documento di economia e finanza) per il 2022, la magna charta che disegna, nel nostro sistema di contabilità e finanza pubblica, gli scenari entro i quali il governo intende basare le proprie scelte di policy. La lettura anche solo della premessa alla prima sezione del Documento, il cosiddetto “programma di stabilità”, ha effetti tutt’altro che rassicuranti: vi si legge un taglio alle stime di crescita rispetto alla NADEF 2021 (nota di aggiornamento al DEF, deliberata il 29 settembre scorso) dal 4,7 al 2,9% per il 2022 e dal 2,8 al 2,3% nel 2023. Se si considera che la crescita di partenza è, in effetti, recupero sulla crisi scatenata dalla contrazione dell’attività economica conseguita alla pandemia, e se si pensa che, secondo il Governo, “in Italia, a marzo l’inflazione al consumo è salita al 6,7% e anche l’inflazione di fondo (al netto dei prodotti energetici e alimentari freschi), seppure assai più moderata, ha raggiunto il 2%”, diventa difficile scacciare lo spettro di una parola che più di qualcuno inizia a pronunciare: stagflazione. Non meno realistico e preoccupato l’approccio sulle conseguenze delle sanzioni e di un possibile blocco delle importazioni di gas dalla Russia: “Sebbene questo rischio sia già parzialmente incorporato negli attuali prezzi del gas e del petrolio, è plausibile ipotizzare che un completo blocco del gas russo causerebbe ulteriori aumenti dei prezzi, che influirebbero negativamente sul PIL e spingerebbero ulteriormente al rialzo l’inflazione. In tale scenario, la crescita media annua del 2022 potrebbe scendere sotto il 2,3 per cento ereditato dal 2021”.

Nella maggior parte dei Paesi europei, e in particolare in quelli che, come l’Italia, hanno una considerevole dipendenza energetica dalla Russia (la Germania in primis) le prospettive non sembrano più rosee.Volendo risparmiare al lettore ulteriori cifre è comunque facile intuire le proporzioni del disastro che si profila in assenza di adeguate contromisure e di scelte coraggiose da parte delle nostre leadership.

Ci chiediamo: stiamo assistendo alla fine della globalizzazione? Si sente affermare da più pulpiti: la sconsiderata decisione del Cremlino segna la fine della globalizzazione, il ritorno a un mondo frantumato in blocchi contrapposti, ad uno sguardo ostile sull’altro, all’espulsione, dal nostro orizzonte, di realtà prima connesse ed oggi destinate a ridiventare “aliene”. La società dell’informazione universalmente condivisa, dei dati orizzontali, onnipervasivi, istantanei, l’epoca delle economie inestricabilmente interconnesse su scala globale, tenute insieme dal collante di una finanza pienamente sovranazionale, sembra terminata. Si riprendono spesso, a tal proposito, le parole che Larry Fink, CEO e presidente di Black Rock, colosso mondiale (con radici USA) dell’investment management, ha rivolto agli azionisti in una lettera del 22 marzo.

Forse, però, la frase usata dal finanziere statunitense (fra i primi 30 uomini più potenti del mondo per Forbes…) va letta per intero: “the Russian invasion of Ukraine has put an end to the globalization we have experienced over the last three decades”. Non è la globalizzazione in quanto tale a vedere la fine, ma una certa idea di globalizzazione: in particolare, l’idea irenistica per cui la finanziarizzazione delle economie mondiali, la creazione di un unico tessuto produttivo su scala planetaria, costruito su specializzazioni regionali e nazionali, l’avvento della digitalizzazione e del “regno dei dati” avrebbero di per sé creato un nuovo ordine anche istituzionale, se non proprio politico, a livello mondiale, un ordine – in tesi – non conflittuale. Ciò si è rivelato fragile e falso.

La disponibilità istantanea e infinita dei dati e delle informazioni e la loro appropriabilità e commerciabilità si è rivelata puntello di quel che è stato definito il “capitalismo della sorveglianza”. La finanza si è mostrata (da tempo) come un tessuto connettivo troppo instabile e foriero di disuguaglianze e di una spirale di trasformazione dei risparmiatori in consumatori-debitori, più che di migliore e generalizzato accesso al credito. Le ragioni della produzione specializzata e, talvolta, la logica del not in my backyard (facile e pigro sostitutivo di una reale, tempestiva transizione ecologica) hanno spinto ad approfondire legami con Paesi esportatori di materie prime che si mostrano stritolanti anche per la libertà d’azione politica, e non solo per le economie, di chi le stringe.

Le risposte immediate e, perlomeno in termini di visibilità, più fortunate a questi fenomeni sono sempre basate su un meccanismo di ripiegamento verso il passato: fino a ieri, il cosiddetto sovranismo; oggi, il ritorno a un sistema di contrapposizione rigida dove ogni forma di sperimentazione istituzionale, in primo luogo sovranazionale, sembra condannata a retrocedere di fronte a schemi consolidati (l’atlantismo, la contrapposizione fra cosiddetto Occidente e “altri”, la – necessitata, per ovvi rapporti di forza – subordinazione geopolitica della UE agli Stati Uniti).

Come già nelle prime fasi della pandemia, l’Unione europea vede il suo ruolo appannarsi, il suo sforzo fin qui più considerevole – il NGEU e il RRF – messo in discussione dalle mutate circostanze economiche e politiche, fino ad ipotizzare che i Piani nazionali di ripresa e resilienza possano essere rivisti e ricalibrati in un’ottica di “economia di guerra”, che significherebbe, inevitabilmente, il fallimento della loro originaria vocazione ad accompagnare l’apertura, la transizione verde, il cambio di passo dei Paesi membri dell’Unione. Allo stesso tempo, il sogno di un’Europa creatrice di nuove visioni e nuove comprensioni fra i popoli del Vecchio Continente, di orizzonti di pace sempre più ampi (in continuità con la ragion d’essere più profonda della sua istituzione) pare recedere sullo sfondo, rimandato a chissà quando.

Quale ruolo per l’Europa? È difficile, oggi, per noi europei, provare a spingere lo sguardo oltre la coltre oscura del malum in se che è la guerra. Ma bisogna farlo. Non ci si può accontentare di una perpetua ripresa di parole d’ordine (coesione, unità, solidarietà con l’aggredito) che, sia pur indispensabili, indiscutibili, non sono sufficienti per tratteggiare possibili soluzioni a lungo termine, così come, probabilmente, le sole sanzioni non basteranno a far cessare il conflitto né a scalzare l’autocrazia di Mosca.

Non ci si può ripiegare su parallelismi storici che lasciano il tempo che trovano: qualcuno ha scritto che, grazie all’impoverimento dell’analisi e dello stesso linguaggio, la nostra è un’epoca di similitudini: la Russia “è come” l’Unione Sovietica; Putin “è come” Hitler; la situazione in cui versa l’Unione Europea “è come” quella del blocco liberal-democratico di fronte all’ascesa del totalitarismo nazista (con correlativa drammatica scelta fra il disonore e la guerra, di churchilliana memoria, che conduce ad ottenere entrambe). Non ci si può accontentare dell’“è come”, ma bisogna comprendere che la Storia vive di costanti e traiettorie evolutive, non di ripetizioni.

Pur in mezzo al dolore, alla disperazione, al senso di impotenza generato in noi dalla guerra, l’Europa deve ancora una volta, come ha fatto – tra mille difficoltà – fra il 2020 e il 2021, sapersi porre sul crinale di queste traiettorie evolutive per definire il senso del proprio percorso istituzionale e andare avanti. L’Unione deve far leva sulla stessa capacità – consapevole o meno – di comprensione del mondo che ha guidato lo sforzo del NGEU, ossia sulla inespressa, ma solida convinzione per cui le crisi che stiamo affrontando (e in questo il Covid non differisce dalla guerra) non devono essere affrontate in termini regressivi, ma progressivi. In primo luogo, realizzando che queste crisi non rappresentano una comoda scusa per tornare al passato. Lo si diceva prima: se è finita la globalizzazione irenistica, la globalizzazione in sé è un fenomeno irreversibile.

E lo dimostrano le stesse conseguenze, i riverberi universali di uno scontro che, dopotutto, coinvolge due attori i quali, insieme, totalizzano appena il 2% del PIL mondiale. Uno scontro che, se fossimo davvero tornati nell’Ottocento, come alcuni amano ripetere, avvertiremmo al più come eco ovattata, problema meramente umanitario o complicato rebus per le cosiddette “cancellerie”.

Ma non è così. La guerra sconvolge l’economia di tutto il mondo, lo si è detto; di più: la guerra adombra sempre la possibilità dell’annientamento totale, reciproco, ben al di là dei contendenti. La stessa immane distruttività del conflitto a cui oggi assistiamo conferma ciò che pensatori come Carl Schmitt e Walter Benjamin avevano intuito molti decenni fa e che filosofi come Byung-Chul Han hanno recentemente ripetuto e affinato: nel mondo della produzione massificata, la guerra come fenomeno appartenente all’umano, sia pur violento, crudele, esecrabile, è divenuta ormai impossibile.

La guerra è, ormai, sempre guerra totale, in cui “il concetto di justus hostis non è più realizzabile” (Schmitt), ma, al contrario, la morte è prodotta in modo “macchinale” e l’avversario è sempre, indiscriminatamente, dis-umanizzato: un “criminale” (non un nemico da sconfiggere, ma un delinquente da “denazificare” o un genocida per definizione). Ancora una volta, è irreversibile il cambio di paradigma tecnologico e di struttura produttiva su cui il fenomeno poggia. Il mondo è ormai reso definitivamente “piccolo”, “uno”, e anche “fragile”, dal predominio della tecnica.

Ma, se la globalizzazione è irreversibile e la guerra è impossibile, se non come distruzione insensata e smisurata, totalmente anomica, la vera alternativa è quella fra paralizzarsi nel terrore o tracciare una via d’uscita da questa tenaglia altrimenti mortale: a fronte della globalizzazione del caos e delle asimmetrie, non resta che insistere sulla capacità ordinativa delle organizzazioni sovranazionali. A fronte della minaccia di obliterazione totale racchiusa in ogni conflitto di una certa scala, non resta che insistere sul dare una voce alla tregua, alla pace, e sul farlo da interlocutori credibili, autonomi, non-dipendenti, nella consapevolezza che, se “nulla è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra”, la pace va pretesa ed ottenuta, e non solo supplicata a chi l’abbia messa in pericolo.

Se la pandemia è stata l’occasione per provare a ripensare un capitalismo bloccato e distruttivo che speriamo dia i suoi frutti, la guerra può essere l’occasione per riaffermare ed estendere il raggio d’azione e le radici profonde dell’impegno europeo. In questo senso, la visita della presidente della Commissione, Von der Leyen, a Kiev, nell’aprire ad un percorso di adesione dell’Ucraina all’Unione, dà speranza. Perché immaginare un destino europeo per la martoriata “terra posta al confine” può significare immaginare, sia pur in un futuro tutto da costruire, attraverso strozzature ed incertezze, una “nuova cerniera” anziché una “nuova barriera”.

C’è un’immagine letteraria che, da giorni, quasi perseguita chi scrive. È quella dello straniante mondo disegnato da Vladimir Nabokov in uno dei suoi romanzi più grandi e difficili, Ada o ardore. Il racconto è ambientato su un pianeta chiamato “Antiterra”, in cui l’esistenza della (nostra) Terra è una sorta di allucinazione collettiva o credenza diffusa. Antiterra (il cui altro nome è Demonia) è, appunto, un’altra Terra, in tutto uguale alla “nostra”, che ha avuto però una evoluzione storica divergente: i russi hanno colonizzato il Nordamerica, sicché Russia è un “grazioso sinonimo” per definire il “nostro” Canada. Quella che “noi” chiamiamo Russia, all’opposto, fa parte di una gigantesca entità politica eurasiatica, la Tartaria, un “inferno indipendente”, “turisticamente inaccessibile”.

L’allucinato gioco del doppio e dello specchio, meticolosamente costruito da Nabokov, si traduce oggi nell’incubo di una possibile “Tartaria”, stavolta situata non su Antiterra, ma nel nostro futuro prossimo. Una Tartaria che nulla avrebbe della “vera” Russia, che è parte essenziale e non eradicabile della cultura, della storia, dell’anima dell’Europa, come interlocutore e come avversario, come estraneo e come fratello, come contrappeso e come riserva di energie inesplorate e vitali, come “grande ponte” verso l’Oriente e come perpetuo rimando alla nostra stessa provenienza, alla stessa provenienza dell’idea d’Europa, da Oriente, secondo quanto ha ben scritto Paolo Rumiz.

Non abdicare al lavoro delle lunghe distanze, dei tempi distesi, delle crescite lente, progressive (e perciò naturali), non rinunciare all’idea che un futuro dell’Europa debba necessariamente includere una viva, dura e vera dialettica con la Russia, al di là dei regimi, al di là dell’inaccettabile orrore della guerra, rappresenta, forse, il miglior postulato di un’azione (immediata) davvero decisiva e lungimirante dell’Unione.

 

[1] Cfr. Spillover di David Quammen, cassandra editoriale datata 2012.