di Tommaso Galeotto
Nelle prime pagine del tuo ultimo libro “Il lavoro che cambia” affermi che «l’Italia è disoccupata per generazione, per genere e per territorio». Come si declinano questi tre punti?
Con questi tre punti, intendo sottolineare che la disoccupazione italiana è un fenomeno più verticale che orizzontale, è verticalizzata soprattutto su tre categorie: 1) su giovani e anziani, cioè sulle generazioni, visto che i primi scontano più difficoltà ad accedere nel mondo del lavoro e i secondi invece sono vittime di violente estromissioni dal circolo produttivo quando mancano politiche di invecchiamento attivo; 2) sulle donne, cioè sul genere, visto che, come i giovani, accedono difficilmente al mondo del lavoro e, quando sono dentro, sia per mancanza di serie politiche di conciliazione dei tempi di vita e lavoro, sia per un retaggio culturale sbagliato, in caso di eventi critici sono le prime ad abbandonarlo. Durante la pandemia, i posti di lavoro persi riguardano nel 75% dei casi l’occupazione femminile. Nel dicembre del 2020, la percentuale è salita addirittura al 99%, tanto che il Fondo Monetario Internazionale ha definito “She-cession” questo fenomeno; 3) sul Sud, per la depressione industriale che tradizionalmente vive, e perché in molte località mancano politiche di conciliazione dei tempi di vita e lavoro. L’occupazione invece cresce dove queste politiche esistono. È per tutte queste ragioni che, nel nostro Paese, non bastano ricette generiche per il contrasto alla disoccupazione, ma servono terapie specifiche per i soggetti che ne sono colpiti.
Spesso guardiamo al lavoro dal solo punto di vista numerico (quanti occupati in più, quanti in meno), senza considerare gli aspetti legati alla qualità delle attività che vengono svolte e del rapporto di lavoro che viene instaurato. Pensiamo alla situazione dei rider o di molti lavoratori nei servizi di cura, anche domestici. Nel libro parli dell’importanza di affrontare il problema dell’occupazione cattiva: precaria, povera e senza tutele adeguate. È un destino inesorabile per molte persone o c’è possibilità di un cambiamento?
Con questa domanda, hai toccato il nervo scoperto del nostro mercato del lavoro. Nel Paese, la flessibilità, quella buona nell’ottica di studiosi come Biagi, che è utile ad assecondare le mutate esigenze delle imprese, si è trasformata in cattiva o, in altre parole, in precarietà. Il lavoro precario è povero e senza tutele adeguate. Peggio c’è solo il lavoro nero. Il caso dei rider è il risultato drammatico di questo fenomeno. Ma nulla è perduto: lo sottolineo anche nel volume, che non vuole essere l’ennesimo canto del cigno, come spesso accade quando si dibatte di lavoro, ma uno stimolo a sfide possibili. La soluzione ce la consegnano i modelli già adottati negli Usa, in Gran Bretagna e, in parte, in Germania. Occorre creare uno statuto di diritti basilari comuni ai lavoratori subordinati, già molto garantiti, e agli autonomi, semi-autonomi, che spesso lavorano, nonostante la differente veste giuridica, come fossero subordinati ma senza le relative tutele, dei precari poco garantiti. Questa soluzione non spaventa le imprese che ricorrono alla flessibilità sana, perché esse già riconoscono i diritti che spettano ai lavoratori, ma andrebbe a danno soltanto di quelle aziende che abusano di questa flessibilità rendendola precaria. Lo chiede l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) che promuove il c.d “decent work”, mentre la Chiesa, già da anni, invita ad “aggettivare” il lavoro per renderlo dignitoso: libero, partecipativo, creativo e solidale.
In che modo il fenomeno della denatalità è legato ai “peccati” della situazione occupazionale italiana? Quali potrebbero essere gli effetti sulla società ma anche le soluzioni?
La denatalità è il frutto avvelenato dei “peccati” che sconta il nostro mercato del lavoro. Quando il lavoro non c’è, o se c’è è precario, povero, nero, senza tutele, conflittuale, carente di politiche di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro per i genitori, le coppie rimandano la scelta di avere figli. A spingerli, è il timore di non poterne sostenere la crescita in assenza di certezze sul lavoro. Invece, nell’ottica dei Padri costituenti, la famiglia è il frutto più prelibato che il lavoro dovrebbe generare e proteggere. È la prima formazione sociale in cui la persona fiorisce, entra in relazione con l’altro. Il lavoro deve mirare a garantire la dignità della persona e la sua autorealizzazione, come ci ricorda l’articolo 3 della Costituzione. Il giusto salario, proporzionato e sufficiente, è solo uno strumento in questa prospettiva e non un fine. Il 2050 rischia di essere un annus horribilis con 300 mila nascite. Per evitarlo, prima ancora che puntare sull’immigrazione, occorre lavare il nostro lavoro dai peccati che sconta. Così, la natalità tornerà a crescere. Altrimenti, si rischia di piantare un albero su un terreno che non è fertile: prima o poi, appassirà come gli altri prima di lui.
Non possiamo non toccare il tema dell’impatto che la tecnologia sta avendo sul lavoro, introducendo anche nuovi modi di lavorare come lo smart working. Credi in un’alleanza possibile tra tecnologia e persone? In che modo la prima può liberare e rendere creativo e solidale il lavoro delle seconde?
Lo smart working è la prova che lavoratori e imprese non sono nemici ma alleati nell’ottica del comune obiettivo del benessere dei primi e della produttività della seconda, e la tecnologia salda la loro alleanza. Ricordiamo che le imprese camminano sulle gambe dell’uomo, sono fatte di persone, di capi in carne e ossa, che, come gli altri lavoratori, meritano la possibilità di autorealizzare nel lavoro la propria personalità. Quando se ne fa un’astrazione e si demonizzano le imprese, facendo di un’erba un fascio, sono le persone a venire penalizzate. Il discorso cambia, invece, per quelle responsabili di delocalizzazioni selvagge, degli sfruttamenti della mano d’opera, di abusi sotto varie forme. In questo scenario, la tecnologia opera come uno strumento abilitante. Avere la possibilità di lavorare da remoto, grazie ai dispositivi elettronici, ha consentito di mantenere: 1) intatta la produttività delle imprese in un periodo di limitazioni; 2) viva la partecipazione al lavoro e la creatività dei lavoratori che hanno potuto sperimentare una nuova forma di libertà, a partire da quella di scegliere i momenti migliori in cui lavorare nel corso della giornata, nell’ambito del canonico orario di lavoro delle otto ore, e dunque di connettersi e di disconnettersi anche in virtù delle proprie esigenze personali (anche se non sono mancati casi di burnout), di lavorare in assenza delle solite direttive, potendo gestire più autonomamente la propria prestazione; 3) aperta la porta verso l’altro, la relazione con i colleghi, nel segno del carattere solidale del lavoro. Non bisogna fare marcia indietro sullo smart working e preservare, per il futuro, la forma alternata: fisso – remoto, come stanno progettando i grossi gruppi del Paese. L’ufficio non è più luogo di lavoro, ma strumento di lavoro che il lavoratore deve poter scegliere di utilizzare. Si tratta anche di un formidabile strumento per attirare talenti, che possono lavorare da luoghi anche lontani dalla sede produttiva, e per mantenerli in azienda. Molte imprese mi hanno riferito che molti giovani, in occasione dei colloqui, prima ancora del salario, chiedono di quanti giorni in smart working possono godere. Non dobbiamo dimenticarci dei blue collars, cioè degli operatori nelle catene di produzione, nella grande distribuzione, nel trasporto che non possono praticare lo smart working perché incompatibile con l’attività lavorativa svolta. Occorre pensare a nuove forme di conciliazione dei tempi di vita e lavoro anche in loro favore.
Nel mezzo di tutte queste grandi trasformazioni, come la Chiesa sta contribuendo a disegnare una nuova visione del lavoro, che sia per la persona e non a suo discapito, superando certi dogmatismi tipici del ‘900? Quali sono i punti cardine della “nuova prospettiva solidale”?
È dal 1891, con l’enciclica Rerum Novarum di Pio XI, che la Chiesa lotta per garantire ai lavoratori un lavoro dignitoso e si scaglia contro gli abusi. Hanno dato un formidabile contributo Papi come Giovanni Paolo II con le encicliche Laborem Excercens e Centesimus Annus, e Benedetto XVI con la Caritas in Veritate. Lo stesso Papa Francesco ha dato un messaggio dirompente sul lavoro. Con l’Evangelium Gaudium l’ha definito libero, creativo, partecipativo e solidale mentre, nel 2017, ha ricordato ai delegati della Cisl che la persona fiorisce nel lavoro. Il Papa ha sul lavoro uno sguardo olistico, ispirato all’ecologia integrale della persona che è tale perché in relazione con l’altro, con l’ambiente e con la comunità di cui fa parte. È la stessa logica che attraversa le encicliche Laudato Si e Fratelli Tutti. La dottrina sociale svela il valore autentico del lavoro che diventa, non merce come i rigurgiti della tradizione fordista hanno voluto, ma atto di amore, viatico per la felicità. Erano dello stesso avviso i Padri Costituenti e i protagonisti della storia come Primo Levi quando immaginavano montatori di gru, come Tino Faussone, innalzare le loro gru fino al cielo per raccogliere la polvere delle stelle. È solo così che “buon lavoro” potrà tornare ad essere per tutti, anche per coloro che svolgono lavori faticosi e usuranti, un augurio sincero.