di Tommaso Galeotto
Giovani qui, giovani là. Un evergreen della politica che regolarmente ripesca questo tema dal cappello, inserendolo bene in vista nei programmi elettorali. Con tutte le buone intenzioni, il dibattito sembra però mancare il nocciolo del discorso, polarizzando le posizioni tra “i buoni” che vogliono aiutare i giovani e “i cattivi” che vogliono sfruttarli. A ben guardare, con una disoccupazione giovanile al 33,8%[1] e un tasso di Neet (Neither in Employment or in Education or Training) al 23,3%[2], per non parlare della condizione spesso precaria e poco appagante anche di chi un lavoro ce l’ha, la situazione risulta essere troppo grave e drammatica per continuare a pensare a un derby tra fazioni.
Forse, una terza via è possibile. Possiamo favorire l’occupazione giovanile a partire da strumenti che in gran parte già sono presenti, sicuramente migliorabili e perfettibili, e riconoscendo che è la poca capacità di utilizzo di questi mezzi, insieme all’insistenza degli attori sociali nel voler trovare scorciatoie più veloci, ad essere il vero nervo scoperto della situazione. Inutile nascondersi dietro un dito: il tema occupazionale chiama in causa anche quello formativo. Le imprese, infatti, non sono alla ricerca di un “lavoratore”, bensì di una persona con competenze, abilità e conoscenze precise. È da una buona formazione, a scuola/università, nella vita e in azienda, che si decide un’importante fetta del futuro professionale, sia esso da dirigente o da operaio, e quindi della possibilità di avere un lavoro equamente retribuito e tutelato, nonché soddisfacente. Per questa ragione, oltre ai temi già ampiamente dibattuti nell’arena pubblica[3], la costruzione del futuro occupazionale dei giovani deve poggiare su due pilastri: i percorsi di alternanza scuola-lavoro, i cosiddetti Pcto (Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento), e l’apprendistato, soprattutto di primo (per studenti tra 15 e 25 anni) e terzo livello (per studenti tra 18 e 29 anni) [4].
I percorsi di alternanza progettati dalle scuole (i Pcto) rappresentano, dal punto di vista educativo e formativo, un momento fondamentale per maturare competenze soft e hard utili a posare i primi mattoni del proprio profilo professionale, nonché a prendere le misure su come funziona il mondo dei “grandi” e farsi un’idea di quali professioni svolgere in futuro. Calandoci però nella realtà dei fatti, alcune recenti ricerche mostrano come il più delle volte questi strumenti vengono visti da chi li organizza come uno scoglio burocratico di cui sbarazzarsi il prima possibile, lasciando quindi non sfruttato il loro potenziale educativo e formativo. È infatti alto il tasso di incoerenza tra le attività portate avanti nei percorsi di alternanza formativa, spesso di basso valore aggiunto, e il percorso di studi del giovane. Come sembra essere fin troppo breve e intermittente la durata di questi percorsi per credere che gli studenti possano davvero sviluppare competenze (tecniche e trasversali) spendibili nel loro prossimo futuro professionale.
Guardando invece al mondo delle imprese, l’apprendistato potrebbe (e dovrebbe) rappresentare una delle vie privilegiate dalle organizzazioni per ingaggiare giovani talenti. Questo strumento, oltre che garantire un risparmio sul costo del lavoro, rappresenta uno strumento formativo dei giovani unico. Nella sua versione duale (primo e terzo livello), l’impresa e l’istituto formativo devono infatti mettersi a tavolino per la stipulazione di un piano di formazione congiunta e personalizzata del giovane, finalizzato al conseguimento di un titolo di studio e allo sviluppo e apprendimento delle competenze che servono all’azienda. Un’occasione unica per sradicare il tanto lamentato problema del mismatch delle competenze[5], che in certe aree del paese supera il 30%. Come per i Pcto, anche in questo caso, a un grande potenziale corrisponde purtroppo un basso sfruttamento delle opportunità che lo strumento offre. Dati alla mano, nel 2019, in paesi come la Germania il numero degli apprendisti ammontava infatti a oltre 1 milione e 300 mila[6], dimostrando grande interesse in questo strumento di raccordo tra formazione e lavoro.
In Italia, dalle ultime rilevazioni istituzionali, emerge invece come stenti a radicarsi una “cultura dell’apprendistato” duale. A certificarlo è il fatto che gli apprendisti nel 2018 erano rispettivamente poco meno di 11 mila, per il primo livello, e 960 per il terzo livello. Numeri piuttosto risicati rispetto al “gemello diverso” di secondo livello (apprendistato professionalizzante, l’altro tipo di apprendistato presente in Italia) la cui quota nel 2018 rappresentava oltre il 97% di tutti gli apprendisti, con circa 482 mila contratti attivi. Pur essendo anche questo uno strumento utile, ha però il limite di non coinvolgere attivamente un’istituzione scolastica e formativa per la formazione e la transizione del giovane nel mondo del lavoro. Un aspetto che forse lo rende più attrattivo agli occhi delle imprese per via della possibilità di ottenere comunque gli incentivi sul costo del lavoro ma con un effort richiesto in termini collaborativi molto minore.
Al di là delle retoriche, la vera sfida per l’Italia è dunque quella di mettere a pieno regime gli strumenti di conciliazione giovani-imprese che sono a disposizione, come l’alternanza scuola-lavoro e l’apprendistato duale. Non per portare avanti una battaglia di nicchia, ma perché, in un mondo del lavoro in continuo transito e trasformazione, la formazione integrale della persona deve essere al centro della questione occupazionale. Un approccio troppo sequenziale, rappresentato dall’idea che prima si studia e poi si lavora, senza neanche considerare la possibilità di un intreccio virtuoso tra questi due mondi, si traduce nei tempi biblici della transizione scuola-università-lavoro, quasi due volte maggiore in Italia rispetto alla media europea[7]. Occorre implementare una preparazione al lavoro dei giovani che sia moderna e attenta alla persona, che tenga in considerazione le sue ambizioni e i suoi desideri, ma che soprattutto sappia costruire ponti per una reale transizione nel mondo del lavoro.
[1] Fonte Ocse, gennaio 2021
[2] Fonte Eurostat, 2020
[3] Si veda il dibatto sulla riforma dello stage con le proposte di legge da parte di Chiara Gribaudo (Pd) e Massimo Ungaro (Iv).
[4] Primo livello: apprendistato per qualifica o diploma professionale; Terzo livello: Apprendistato di alta formazione e ricerca. Entrambi permettono di conseguire un titolo di studio.
[5] Si tratta della difficoltà di reperimento segnalata dalle aziende nel trovare le figure professionali di cui necessitano, sia per mancanza di candidati che per preparazione inadeguata.
[6] Fonte Anpal
[7] Si fa riferimento al dato di Eurostat. ITA: 10.5 mesi; EU: 6.3 mesi.