di Francesco Occhetta, intervista a Elena Bonetti Ministra per le pari opportunità e la famiglia

 

Grazie per avermi ricevuto. Le vorrei subito chiedere, pensandola anche nelle vesti di professoressa universitaria, se ci sono parole e progetti nuovi che possano coinvolgere le giovani generazioni e come possiamo aiutarle in concreto a prendersi responsabilità politica, ricostruire le loro città, dare speranza al loro domani, ripensarsi in un noi sociale che va oltre l’individualismo in cui rischiamo di farle crescere.

La parola che credo possa animare e liberare di più le energie delle nuove generazioni è “coraggio”, perché direziona lo spirito e l’intelligenza in una prospettiva di futuro, in uno sguardo in avanti. È una parola che necessita di un processo di piena consapevolezza e adesione, perché chiede di avere una passione grande di cui prendersi cura, in cui mettere il cuore. Credo sia questo l’elemento chiave per rianimare la speranza collettiva che è interpretata dalle nuove generazioni. In una società, i giovani sono quelli che hanno la percezione dell’avvenire, di quello che deve ancora arrivare. Sono come le rondini, lo diceva La Pira. In questa percezione, lo scatto da fare è riconoscere che quel tempo del futuro vale la pena dell’investimento di un progetto di vita: questo è l’atto del coraggio. Credo che in particolare per questa generazione la frase chiave sia «fare nuove le cose», che è qualcosa di più – e di più profondo – del cambiamento e non è semplicemente uno svoltare: è la realizzazione di un percorso di trasformazione storica, un percorso di concretezza che sa interpretare la novità del tempo che prosegue. È riconoscere un’identità, una comunità, un percorso che dobbiamo saper far proseguire e farlo nel tempo della novità che è il domani.
Aristotele dice che c’è bisogno, per vivere il coraggio, di atti coraggiosi.
Le azioni di coraggio per le nuove generazioni penso debbano essere molto incarnate nella loro dimensione di vita e di territorialità. I giovani hanno bisogno di tornare a sentirsi cittadini di una dimensione di prossimità, a partire dal loro territorio, e per me territorio vuol dire il loro spazio e tempo di vita: della scuola, dell’università, dell’esperienza associativa, dello sport, in tutti quei luoghi in cui i giovani hanno uno spazio di agibilità. Questo ha anche una valenza di impegno prepolitico e politico al livello delle amministrazioni. Nelle nostre comunità c’è già ma, per renderlo reale ed effettivo, i giovani devono poter individuare una direzione di agire politico, di presa in carico del bene comune. Si tratta di saper connettere l’ambizione a rendere il mondo più giusto, più equo, con il concreto riconoscere che nella costruzione della tua città c’è uno spazio di diseguaglianza sul quale puoi agire. E, allo stesso tempo, sapere che quell’azione puntuale che fai è un pezzo di un racconto più grande, di un’ambizione che osa di più.

 

Il Ministero per le pari opportunità e la famiglia che Lei guida è apparentemente minore, ma accompagna la vita di milioni di persone. L’esperienza di famiglia oggi rischia di essere la somma di solitudini, mentre per la Costituzione è la prima forma di comunità e cellula della società. Al di là delle posizioni ideologiche sulla definizione di famiglia, cosa significa oggi in Italia e in Europa parlare di politiche per la famiglia? Quali categorie nuove e approcci culturali occorre avere sul tema della famiglia? E c’è spazio per la vita della famiglia, così come la Costituente l’ha pensata?

Per troppo tempo la politica si è fermata a definire un oggetto anziché riconoscere una realtà che la nostra Costituzione ha previsto e riconosciuto. Le famiglie sono, nel nostro Paese, le comunità in cui l’individuo diventa persona. E diventa persona sia per le relazioni costitutive dell’elemento della comunità ma anche perché nelle famiglie la vita di ciascuno è inserita in un processo, in un tempo, che è quello del divenire di queste relazioni. Vivere un’esperienza familiare significa vivere un’esperienza relazionale orizzontale, e quindi di progetti di vita che si intersecano, ma anche un processo di sviluppo, di dinamica del futuro. Per questo oggi le politiche familiari possono rappresentare anche un elemento di novità nella politica. Sono politiche che non possono limitarsi a riconoscere individui per categorie, ma necessariamente collocano la persona nel suo contesto di relazioni e di responsabilità. Ad esempio, le politiche attive per il lavoro colgono una lavoratrice o un lavoratore rispetto al suo stato attuale, alla tipologia di lavoro o alle competenze che ha, ma ad oggi non intercettano le sue responsabilità sociali, che però sono fortemente connesse al tema del lavoro. La cassa integrazione è uno strumento per aiutare il lavoratore ma se non riconosce la responsabilità sociale che il lavoratore esercita, di fatto non risponde ai suoi bisogni reali. Il Covid-19, questo lo ha messo molto in evidenza. Le politiche familiari connettono le vite personali e devono essere quindi sempre politiche che costruiscono connessioni, non di risposta individuale ma di integrazione. Nel Family act, per esempio, lavoriamo con il tema della responsabilità educativa, del rapporto tra i generi e le generazioni. L’altro elemento è che le politiche familiari sono politiche di stabilità e aprono ad una politica di processi e di divenire. Questo perché intrinsecamente la famiglia porta con sé una dimensione temporale, e quindi le politiche che devono rispondervi necessitano di una direzione temporale: l’assegno unico e universale è strutturale e continuativo nel tempo per essere accompagnamento di un progetto di vita familiare. Rispetto alla sua domanda sulla solitudine: il sistema che è stato per anni anche promosso e sostenuto con scelte di organizzazione urbana, di scelte di vita, di servizi, di regole del mercato del lavoro, corrisponde a un modello di società che ha confuso la libertà della persona con la sua solitudine. Credo che l’esperienza drammatica che abbiamo vissuto abbia dimostrato che un sistema di solitudini ci rende strutturalmente fragili, perché non ha lavorato sulle coesioni. Questo lo dice anche la fisica: se hai un materiale che non ha legami di coesione, l’urto lo spezza. Per lavorare sulla resilienza e la resistenza all’urto, e anche a una maggiore elasticità come adattabilità al processo storico, serve lavorare sui processi di connessione. Per le famiglie c’è spazio e c’è un processo che va preceduto e favorito, e questo penso sia il compito delle politiche pubbliche oggi.

 

Il Paese ha bisogno di riforme. Esiste un minimo denominatore, comune a tutti partiti, per riformare la casa delle istituzioni, semplificare le regole, superare la tecnica e rifondare un “progetto Italia” per l’Europa? Cosa blocca questo processo che in questi ultimi 20 anni viene proposto come la priorità dalla classe politica? C’è una formula – matematica, se vuole – per sbloccare il sistema? In altre parole, cosa significa essere riformisti oggi?

Se c’è una formula matematica per sbloccare il sistema è la regola del parallelogramma, la somma dei vettori delle forze. Penso che quello che ci ha bloccato è stato un modello di Paese nel quale abbiamo diviso e posto in antitesi i diritti degli uni contro quelli degli altri. In un modello sociale in cui ci sono parti opposte, che si riconoscono come tali, l’equilibrio sociale non può che essere statico. In un modello sociale nel quale, invece, si individua una direzione comune e di condivisione, le diverse forze partecipano a un processo dinamico e di movimento. Il riformismo è movimento, non è un equilibrio statico tra le parti. Un processo di riforma è un processo che deve saper riconoscere che ci sono delle possibili ricomposizioni dei diritti e degli obiettivi delle parti sociali. Penso anche che la vocazione maggioritaria che ha avuto il riformismo in Italia, e che si rispecchia nelle scelte di alcuni partiti, non si sia realizzata perché si è confusa questa vocazione con la maggioranza del consenso. Una vocazione maggioritaria vuol dire avere una vocazione universale. Vuol dire, ad esempio, saper riconoscere che il diritto delle nuove generazioni e quello delle generazioni più anziane non vanno contrapposti in un equilibrio di “punto intermedio”, i due diritti vanno ricomposti in una somma di forze che permette al Paese di andare avanti, nell’ambito del welfare come nel rapporto tra imprenditoria e lavoro dipendente. Il riformismo deve interpretare questa novità della politica. Questo Governo ha scelto la composizione in avanti come metodo, considerandola elemento urgente nello sviluppo del Paese. Penso anche che abbiamo ideologicamente trasformato il riformismo in qualcosa di astratto, si è lavorato di più sull’“-ismo” e meno sulle riforme. Oggi invece la nostra democrazia chiede una riforma del sistema istituzionale. Durante il periodo del Covid-19 mi è sembrato – e questo è uno degli elementi che ho vissuto con più fatica – ci sia stata la tentazione di pensare che la nostra forma democratica non fosse adeguata a rispondere all’emergenza storica che stavamo vivendo, e di poter quindi dire: “nel momento di emergenza, sospendiamo il processo democratico che abbiamo scelto”. Questo per me è grave e storicamente irresponsabile, perché significa consegnare alle generazioni future il giudizio che la democrazia non è la miglior forma storica per la salvezza di un popolo. Noi siamo profondamente convinti del contrario: la Costituzione è stata l’atto di salvezza di un popolo consapevole del momento più drammatico che aveva vissuto. Oggi, 75 anni dopo, abbiamo bisogno di riscegliere e reincarnare quella forma democratica in un nuovo processo storico, abbiamo bisogno di scegliere una nuova forma delle istituzioni che ci aiuti a rendere più concreta e efficiente una democrazia matura. Solo un esempio: il tema della rappresentanza deve essere affiancato ad un tema di responsabilità dei livelli istituzionali. La forma del titolo quinto è inadeguata perché è pensata in un gioco di pesi e contrappesi dei livelli istituzionali. Invece, tornando alla regola del parallelogramma, serve un riassetto istituzionale che faccia cooperare nelle responsabilità reciproche questi livelli. E, in questa ottica di partecipazione indirizzata, il bilanciamento tra le due camere realizzato da un bicameralismo perfetto va riformato.

 

Come vede il nostro Paese assestarsi nei nuovi equilibri geopolitici? Quale visione umanista possiamo portare nel contesto internazionale? Qual è stato il contributo del Governo italiano nel recente G20 e in particolare quello che lei ha portato al tavolo G20 sulle donne?

L’Italia ha riacquistato nel contesto internazionale una agibilità e una leadership evidenti come paese che si pone in difesa dei diritti delle persone e che ha in sé energia, creatività, visione, responsabilità, e un senso della bellezza integrale che le viene dalla scelta antropologica, fondativa, del reciproco riconoscimento della dignità delle persone. Grazie all’intuizione del Presidente Mattarella, il governo italiano oggi non è semplicemente un equilibrio tra la maggioranza dei partiti, è la scelta della ricomposizione di un Paese, scelta che il Presidente Draghi interpreta e incarna in modo straordinario, con tutta la sua personale, indiscussa autorevolezza nello scenario mondiale. In questa ricomposizione abbiamo riacquistato un ruolo di orientamento delle dinamiche internazionali. Lo si è visto in modo molto netto in tutta la Presidenza italiana del G20: gli input che abbiamo dato sul clima, sulle finanze, su una nuova visione dell’economia per una crescita strutturale, alla quale però o tutti partecipano o crescita non è, hanno tutti avuto riscontro. Siamo il paese che per la prima volta ha portato al G20 una conferenza sull’empowerment femminile, e su questo tema in particolare ci è stata riconosciuta una leadership perché da paese che, dati alla mano, era all’ultimo posto per numero di donne che lavorano, abbiamo avuto il coraggio di definire e adottare una strategia che pone la parità di genere come un elemento chiave non solo di riconoscimento del diritto delle donne ma di sviluppo di tutta la collettività. Questo è il cambio di paradigma che ha sbloccato il dibattito, l’idea che l’empowerment delle donne è liberare le energie di un’intera dimensione sociale.

 

La Chiesa in Italia ha organizzato la prossima Settimana Sociale a Taranto dal 21 al 24 ottobre.  Si rifletterà sul significato di “democrazia ecologica”, che si fonda sulle radici dell’“economia integrale” e della “transizione ecologica”, entrambi concetti che Francesco ha anticipato rispetto alle agende dei governi nel 2015 con l’Enciclica Laudato si’. L’approccio all’ambiente per la Chiesa non è solo tecnico, ma è olistico e si fonda su due poli: l’inseparabilità «della preoccupazione per la natura, la giustizia verso i poveri, l’impegno nella società e la pace interiore», scrive Francesco (LS n. 10). E la cura dei quattro livelli dell’equilibrio ecologico: quello interiore con sé stessi per sanare l’inquinamento del cuore, «quello solidale con gli altri, quello naturale con tutti gli esseri viventi, quello spirituale con Dio» scrive il Papa (LS n.210). Come si pone il Governo Draghi rispetto a questo nuovo approccio di ambiente e di sviluppo?

Questo governo fa della scelta della transizione ecologica e dello sviluppo ambientale uno degli assi della ricostruzione del Paese e il volto dell’Italia che vogliamo essere. Siamo consapevoli che le azioni che riguardano l’ambiente o sono pienamente coese e integrate con tutti i processi umani, sociali, economici e lavorativi, oppure risultano parziali, rischiando di scivolare nell’ideologico e, quindi, anche nell’inefficace. Oggi ragionare di investimento nella transizione verde significa ridisegnare le politiche di ingaggio nel mondo del lavoro, i processi non solo di produzione ma anche di generazione dell’energia, di organizzazione sociale, della mobilità, di connessione delle aree interne e delle aree metropolitane, dei servizi, dei tempi di vita. Significa scegliere di valorizzare, connettendoli, i molti elementi dell’economia del nostro Paese, dal turismo alla cultura: tutto questo è parte della transizione ecologica. Questo perché nella transizione ecologica si sceglie non semplicemente uno stile ma un processo di ricostruzione di un ecosistema di umanità, nel quale la persona è in relazione al contesto sociale, all’ambiente e ai suoi processi trasformativi. Una scelta concreta fatta dal governo con il PNRR in questo senso riguarda i processi di trasformazione del mondo della produzione: passare da un combustibile ad un altro significa sviluppare processi di ricerca, formare nuove competenze, riconoscere che ci sono mercati, mondi, lavori che rischiano di essere spenti. Lo sforzo da fare è riqualificarli in modo puntuale: penso soprattutto al tessuto della piccola e media impresa e, all’interno di questo ragionamento, al tema del femminile. L’altro elemento su cui il governo è impegnato è una strategia e una visione di insieme, sull’Italia e sul mondo. Pensiamo al tema dei costi delle materie: non si può dimenticare che ci sono paesi in via di sviluppo che devono essere accompagnati in un processo compatibile con la scelta ambientale e ecologica. Investire in politiche ambientali ha un costo e non tutti partiamo dallo stesso punto di partenza. Serve una solidarietà internazionale e serve attivare modi e tempi per far sì che tutti arrivino allo stesso obiettivo, oppure il sistema non reggerà. Sono scelte che vanno fatte con grande determinazione, e su questo il premier Draghi è stato chiarissimo negli appuntamenti internazionali.
Abbiamo iniziato con la parola coraggio, concludiamo con la parola…?
Con la parola speranza, che è sempre l’inizio.