Gesuita, giurista, insegna alla Pontificia Università Gregoriana di Roma. Giornalista professionista e collaboratore di varie riviste. Segretario della Fondazione vaticana Fratelli tutti, ideatore e fondatore di Comunità di Connessioni.
La polemica tra il Governo e la Magistratura di questi mesi continua a espandere una crepa nel nostro sistema democratico. Sono bastate le vicende giudiziarie che hanno coinvolto la ministra Daniela Santanchè, il sottosegretario Andrea Delmastro e il figlio del Presidente La Russa per determinare un duro botta e risposta tra i due poteri.
Ci sono momenti nella storia in cui, per rigenerarla, occorre scegliere parole nuove. Circa 10 anni fa il termine “ambiente”, per esempio, nelle sue declinazioni - transizione ecologica, nuovo modello di sviluppo, sostenibilità ecc. – è stato in grado di modificare le agende pubbliche delle aziende e dei governi.
Sono passati 75 anni da quando alcuni leader politici e intellettuali lungimiranti come F. D. Roosevelt, Eleanor Roosevelt, Jacques Maritain, John Humphry e René Cassin, ascoltando lo sdegno dell’opinione pubblica per le conseguenze della guerra, rivoluzionarono l’ordinamento internazionale ponendo la dignità della persona al di sopra della sovranità dello Stato. Da quella scelta politica è nata la Dichiarazione universale dei diritti umani. Dopo 75 anni dalla sua approvazione, è utile interrogarsi sull’attualità dei diritti e degli impliciti doveri sanciti dalla Dichiarazione, sul loro fondamento e sull’efficacia della loro tutela, per poterci porre un’ulteriore domanda: perché i diritti umani «regnano ma non governano» e perché si compiono le più feroci crudeltà nel loro nome?
Il 24 marzo l'organo antitortura del Consiglio d'Europa (Cpt) ha definito le carceri italiane “violente e sovraffollate” ed ha chiesto l’abolizione dell’isolamento diurno e il riesame del 41bis. È così ritornato al centro del dibattito politico il tema della giustizia che divide la società tra giustizialisti, che fondano la loro idea di giustizia sulla vendetta, e permissivisti, che minimizzano l’accaduto e vorrebbero chiudere le carceri. Queste posizioni funzionano però fino a quando la giustizia non tocca la propria carne o quella di un familiare. È così ritornato al centro del dibattito politico il tema della giustizia che divide la società tra giustizialisti, che fondano la loro idea di giustizia sulla vendetta, e permissivisti, che minimizzano l’accaduto e vorrebbero chiudere le carceri. Queste posizioni funzionano però fino a quando la giustizia non tocca la propria carne, quella di un familiare o di un amico, un collega o qualcosa che si è costruito: allora, improvvisamente, ci si converte a idee di giustizia non ideologiche. Per questi motivi, la riapertura di un dibattito sulla giustizia e sull’applicazione della riforma Cartabia dovrebbe partire da alcune premesse culturali.
Il 2 marzo il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha reso omaggio alle vittime del naufragio, avvenuto domenica scorsa nelle acque di Steccato di Cutro in Calabria, dell’imbarcazione sulla quale viaggiava un gruppo di migranti. È rimasto in piedi davanti alle bare segnate solo da codici alfanumerici, prive di nomi, di alcun simbolo di umanità e di riconoscimento. È rimasto in silenzio, simbolo unitario del dolore del Paese di fronte a questa tragedia.
Le parole di papa Francesco, pronunciate durante il suo viaggio in Kazakistan, illuminano il quadro politico che si è determinato dopo le elezioni del...
Qualche anno fa Pierluigi Battista scrisse, sulle pagine del Corriere della Sera, delle parole che valgono, ancora oggi, per chiunque si fermi a riflettere...
C’è ancora molto da costruire nonostante un contesto di minoranza sociale e di isolamento nella vita dei partiti per i credenti che vogliono impegnarsi. Le soluzioni alternative ci sono, sono scritte nella storia. Ce lo ricordano Eliot e Cullmann: fiducia e cooperazione, bene comune e felicità pubblica, sussidiarietà e dignità, rimangono le maglie del setaccio attraverso cui filtrare scelte e progetti, temi e provvedimenti, sogni e impegno quotidiano.
Durante un agosto rovente e pieno di nubifragi, si stanno chiudendo le liste elettorali e intanto il 25 settembre, giorno delle elezioni, si fa sempre più vicino. I nodi venuti al pettine hanno stupito l’opinione pubblica, ma era tutto già scritto: una legge elettorale inadeguata, la riduzione dei parlamentari, la scelta dei candidati da parte dei segretari di partito, i conflitti interni ai partiti, le esclusioni eclatanti da gestire e l’imposizione di candidati lontani dai territori in cui dovranno farsi eleggere.
Mario Draghi non è più il Presidente del Consiglio. L’escalation ha lasciato sbigottiti gli osservatori internazionali: Conte ha aperto la crisi, Salvini l’ha cavalcata, Meloni l’ha capitalizzata e Berlusconi l’ha avvallata, svuotando per sempre le attese moderate e liberali di cui Forza Italia era portatrice. È stato sacrificato così Mario Draghi, il presidente riformatore che, nei suoi 523 giorni di governo, ha svolto il ruolo di garante del Paese grazie a tre caratteristiche determinanti: credibilità, competenza e rigore morale.