di Giuseppe Falvo

Il buon funzionamento della giustizia è decisivo per il rilancio del sistema Italia in quanto, oltre ad attenere ai diritti fondamentali dei cittadini, incide sulla competitività del Paese. L’inefficienza e l’incertezza che condizionano da anni il corretto funzionamento del sistema giudiziario italiano, infatti, sono fra le principali ragioni di freno alla crescita economica del nostro paese scoraggiando gli investimenti privati ed esteri. Per tali ragioni quasi tutte le recenti riforme che hanno riguardato l’amministrazione della giustizia, civile e penale, hanno individuato nel fattore tempo il principale ambito sul quale incidere con interventi normativi. «Vietato giocarsi il futuro del Paese usando la giustizia come pericoloso terreno di conflitto o propaganda», era stato l’avvertimento lanciato  ai partiti politici dalla ministra Marta Cartabia all’inizio del percorso legislativo dei due disegni di legge di riforma del processo civile e penale: in ballo non c’erano soltanto i 2,7 miliardi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) riservati alla giustizia, ma i circa 200 miliardi di fondi europei provenienti dal Recovery, destinati alla rinascita economica e sociale del nostro paese.

In sostanza, nonostante la giustizia sia uno degli argomenti più divisivi della vasta maggioranza parlamentare che sostiene l’attuale governo, le riforme che la riguardano vanno fatte e in tempi brevi. Le riforme, infatti, come la materia che intendono disciplinare, devono tenere conto dello scorrere del tempo, un bene sempre più prezioso per la nostra società. Nel nostro paese i tempi di definizione dei giudizi civili e penali sono da sempre oggetto di preoccupazione delle istituzioni europee. Gli obiettivi che la Commissione europea ha imposto al governo italiano per ottenere i fondi del Next Generation EU sono davvero ambiziosi: in 5 anni ridurre del 40% giudizi civili, del 25 quelli penali. Seguendo questa direttrice il Governo ha presentato due disegni di legge delega, il primo per il processo civile, approvato al Senato e in discussione alla Camera; il secondo per quello penale, recentemente approvato dal Parlamento (legge del 27 settembre 2021, n. 134).

Per il settore civile, prima di tutto, si punta a rendere più rapide ed efficiente le procedure di esecuzione in modo da ridurre i tempi di recupero dei crediti in via giudiziaria. Da tali misure ne trarrà vantaggio l’intera economia italiana: basti pensare che gli istituti di credito, con maggiore certezza sul recupero del credito, avranno rischi minori e potranno ridurre i tassi dei finanziamenti e concedere prestiti anche ad aziende giovani e senza garanzie eccessive. Inoltre, il DDL prevede importanti modifiche al processo di cognizione di primo grado, l’istituzione di un rito unitario per la materia della famiglia con la creazione del Tribunale di famiglia ed una profonda revisione degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie (mediazione, conciliazioni e arbitrati), che, ad oggi, non hanno fornito i risultati deflattivi del contenzioso auspicati con le precedenti riforme.

Anche per quanto riguarda il settore penale il disegno di legge delega prevede delle misure finalizzate al contenimento dei tempi del processo. La ragionevole durata del processo, sancita dall’art. 111 della nostra Costituzione oltre che dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, è in carico allo Stato che deve disporre di strumenti adeguati a dare una risposta in tempi rapidi. Un’eccessiva durata del processo crea pregiudizio sia alle garanzie delle persone coinvolte, l’indagato/imputato e le vittime, sia all’interesse dell’ordinamento all’accertamento e punizione dei reati. Anche lo Stato, se non interviene in tempi ragionevoli, viene meno al suo compito di assicurare l’adeguata punizione per chi commette fatti “ingiusti” (i reati) nei confronti delle vittime e della società. Ulteriore peso è poi l’accumulo di tutti i processi aperti, una situazione che genera ulteriore ritardo e rischio di prescrizione. Ebbene il recente DDL per l’efficienza del processo penale ha introdotto la nuova disciplina dell’improcedibilità, che si applicherà ai reati commessi dopo il 1° gennaio 2020. Con tale disposizione, che entrerà in vigore in modo graduale entro il 2024, si prevede che la mancata definizione del giudizio di appello entro il termine di due anni e del giudizio di cassazione entro il termine di un anno costituiscano cause di improcedibilità dell’azione penale.

I termini di durata dei giudizi di impugnazione potranno essere prorogati solo in presenza di gravi delitti – associazione di stampo mafioso, terrorismo, violenza sessuale e associazione finalizzata al traffico di stupefacenti – e nel caso di giudizi particolarmente complessi, mentre i reati puniti con l’ergastolo restano esclusi dalla disciplina dell’improcedibilità. Con il medesimo DDL sono state, inoltre, concesse importanti deleghe al Governo, da esercitare entro un anno con l’adozione di uno o più decreti legislativi,  per avviare i correttivi necessari a mitigare le attuali disfunzioni del processo penale; correttivi miranti – principalmente – ad accelerare i tempi del processo anche tramite strumenti deflattivi, la semplificazione delle procedure, il maggiore ricorso agli strumenti digitali oltre che al potenziamento delle garanzie difensive e della tutela della vittima del reato[1].

Tra le altre novità che faranno ingresso nel codice penale, per favorire risposte immediate ai delitti riparabili, nel rispetto delle persone offese e con il coinvolgimento della collettività, si prevede per la prima volta una disciplina organica della giustizia riparativa, cioè a metodi alternativi di riparazione del danno causato dal reato, nel rispetto della Direttiva 2012/29/UE, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e dei principi sanciti a livello internazionale. L’altra vera e propria innovazione sarà l’istituzione del cd. ufficio del processo (già illustrata dall’articolo di Gianluca Grasso su questa rivista), consistente in strutture di supporto e assistenza all’attività giurisdizionale dei magistrati. Se qualche critica vuole muoversi alla riforma della giustizia penale possiamo individuare due spunti di riflessione. Una riforma legislativa, che intende incidere profondamente sui tempi e sull’efficienza del processo, per quanto ben congeniata, non può funzionare senza che i Tribunali, ai quali è demandata l’attuazione pratica della stessa riforma, vengano dotati di risorse professionali, umane e strumentali adeguate a che la giustizia possa essere resa in tempi rapidi. La crisi del sistema giudiziario nel nostro paese non è legata a circostanze contingenti, ma è ormai strutturale e si trascina da diversi decenni e, come tale, necessiterebbe di misure altrettanto strutturali.

La riforma in analisi pare concentrare i rimedi all’eccessiva durata dei processi con provvedimenti di natura tecnico-processuale, senza considerare – come oramai da tempo denunciato dalla dottrina giuridica e dagli operatori del diritto – che una delle cause principali dei tempi lunghi della giustizia nel nostro paese è la grave carenza degli organici di magistrati e del personale  ausiliario, cancellieri e ufficiali giudiziari, oltre che dalla fatiscenza e inadeguatezza degli stessi uffici giudiziari. Basti pensare che, secondo i dati della Commissione per l’efficienza della giustizia presso il Consiglio d’Europa – Cepej, in Italia sono presenti circa 10,6 giudici ogni 100.000 abitanti, cioè meno della metà della media europea (21,5) e sono presenti appena 35 ausiliari ogni centomila abitanti, ossia circa la metà rispetto alla media europea (68,7).

Secondo i dati comunicati dal primo Presidente della Corte di Cassazione Pietro Curzio, durante l’inaugurazione dell’ultimo anno giudiziario, erano in servizio circa 9.100 magistrati ordinari a cospetto di un organico complessivo, fissato nel 2018, di 10.751 posti (dunque ne restano vacanti 1.313 posti equamente divisi tra giudicanti e requirenti). In compenso in Italia ci sono tantissimi avvocati, quasi 400 ogni centomila abitanti. Ciò si traduce in un eccesso di casi giudiziari affidati ad ogni singolo magistrato con conseguente ed inevitabile ritardo in termine di tempo alla definizione dei processi, sia in fase di indagine sia dibattimentale, e riduzione della qualità del servizio reso. Le stesse carenze strutturali riguardano il personale ausiliario, essenzialmente cancellieri e ufficiali giudiziari.

Di fronte a tali numeri la creazione dell’ufficio del processo, al finanziamento del quale vengono destinate la maggior parte dei fondi previsti dal PNRR, può certamente rappresentare una misura straordinaria e temporanea per far fronte all’immenso arretrato, per offrire un supporto al giudice di personale qualificato e per agevolare l’attività preparatoria del giudizio, ma di certo non può da solo risolvere il problema della grave carenza di magistrati e personale di cancelleria e segreteria. Occorre intervenire rapidamente con il rafforzamento degli organici amministrativi e di polizia giudiziaria e l’assunzione di magistrati soprattutto nelle sedi con maggiore arretrato – magari giungendo alla stabilizzazione degli attuali giudici onorari (circa 5.000), fondamentali per l’esercizio della giurisdizione (smaltendo circa il 60% del carico dei processi civili e penali) – e presso le Corti di Appello, ove si concentrano i processi provenienti da tutti i tribunali del distretto, a fonte di un numero di giudici inferiore rispetto a quelli di primo grado. Sotto altro profilo, vi è molto da fare, destinando importanti risorse, per velocizzare l’attuazione delle procedure di digitalizzazione dei processi, giungendo ad un sistema simile a quello già adottato per il processo civile telematico. Analogamente, per realizzare appieno la funzione rieducativa della pena, risorse rilevanti dovranno essere destinate per la costruzione di nuovi istituti penitenziari e per consentire ai condannati, durante l’esecuzione pena, di svolgere un’attività lavorativa. Infine, non appare più differibile un’importante opera di depenalizzazione di molteplici fattispecie di reato. Innanzitutto, dei cd. reati minori e contravvenzionali, la maggior parte dei quali potrebbero ben essere semplicemente puniti in via amministrativa, senza le garanzie tipiche del sistema penale (e sostenendo i costi statali che ne conseguono), ovvero tramite l’irrogazione di una pena pecuniaria adeguata alla gravità del fatto, che certamente produrrebbe un effetto repressivo e dissuasivo maggiore rispetto alla minaccia di una pena conseguente ad un processo penale dai tempi lunghissimi. Si tratta, infatti, di reati per i quali solo in rarissimi casi si arriva ad una condanna definitiva, la maggior parte dei quali si prescrivono e, anche quando ciò non accade, le condanne consistono in pene miti quasi sempre soggette a sospensione condizionale. Si raggiungerebbe la deflazione del carico giudiziario penale e, dall’altro, l’effettività della sanzione, tenendo conto della scarsa offensività degli illeciti.

In tal modo verrebbero sanzionati con lo strumento penale soltanto quei comportamenti ritenuti effettivamente devianti e che intaccano i beni primari costituzionalmente garantiti,  abbandonando – come da tempo rilevato dal Prof. Sergio Moccia – la «perenne emergenza  che da circa trent’anni informa di sé le opzioni legislative e le prassi applicative», che ha comportato una penalizzazione a ogni costo delle condotte (cd pan-penalizzazione) e che risponde più a spinte di carattere populistico-giustizialiste che a reali esigenze di tutela della collettività. In tale ottica va inquadrata la previsione, contenuta nella legge n. 134 del 2021, in base alla quale «gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’uniforme ed efficace esercizio dell’azione penale, nell’ambito dei criteri generali indicati con legge dal Parlamento, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle Procure della Repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo conto anche del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili».

Si tratta di una previsione finalizzata a razionalizzare il lavoro dei pubblici ministeri – in parte già adottata da alcuni Uffici Giudiziari del nostro Paese (tra le quali le Procure di Roma e Torino) attraverso circolari emesse dai capi delle procure – innanzi alla mole dei procedimenti pendenti e ai limiti oggettivi di capacità di smaltimento dell’organismo giudiziario nel suo complesso e potrebbe rappresentare il viatico per il definitivo superamento del principio – mai correttamente attuato – dell’obbligatorietà dell’azione penale e della riconduzione delle scelte di politica criminale alla responsabilità dell’esecutivo, come avviene nelle principali democrazie (Germania, Belgio, Spagna Francia e Stati Uniti). Siamo sull’orlo di una riforma epocale, che certamente troverebbe resistenze e critiche, che però sarebbe facilitata dal profondo rinnovamento del sistema pollico che stiamo attraversando e dall’affievolirsi di quella cultura giustizialista che ha dominato nel nostro paese a partire degli anni ‘90.

 

 

[1] In particolar modo sono previste l’adozione di misure per: a) promuovere la digitalizzazione del processo penale, anche attraverso la possibilità di ricorrere alla registrazione audiovisiva per documentare l’interrogatorio o l’assunzione di informazioni e consentire la partecipazione all’udienza a distanza; b) modificare la  disciplina delle notificazioni all’imputato, prevedendo la possibilità di svolgimento del processo in assenza solo ove sia acquisita con certezza la mancata partecipazione volontaria dell’imputato al processo;  c) liminare i ruoli dibattimentali ai soli casi in cui sia ragionevole una previsione di condanna, incidendo sia sui giudizi di archiviazione, che sulla pronuncia di non luogo a procedere nel corso dell’udienza preliminare; d) rimodulare i termini di durata delle indagini preliminari, con rimedi specifici in caso di stasi del procedimento; e) estendere le possibilità di ricorso ai cd. riti alternativi (patteggiamento, giudizio abbreviato, decreto penale di condanna); f) introdurre l’obbligo di calendarizzazione delle udienze dibattimentali, in modo da garantire il più possibile durate certe dei processi; g) rimodulare le impugnazioni ampliando le ipotesi di inammissibilità dell’appello e privilegiando le trattazioni con rito camerale non partecipato; h) estendere il novero dei reati procedibili a querela; i) razionalizzare e semplificare i procedimenti di esecuzione delle pene pecuniarie; l) ampliare le ipotesi di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto e di messa alla prova dell’imputato al fine di scongiurare la celebrazione di processi per reati bagatellarli; m) incentivare l’applicazione di pene sostitutive a quelle detentive brevi; n) ulteriori disposizioni di razionalizzazione del procedimento penale.