Luciana Castellina è nata a Roma, il 9 agosto 1929, da una famiglia borghese, laureata in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Roma La Sapienza. Dopo la guerra aderisce al Partito Comunista Italiano, fino a quando viene radiata perché cofondatrice de Il Manifesto, del quale ancor oggi è redattrice. Per tre legislature (VII, VIII, IX) è stata membro della Camera dei deputati, parlamentare europea dal 1979 al 1999 dove ha presieduto la Commissione per la cultura, la gioventù, l’istruzione e i mezzi d’informazione e la Commissione per le relazioni economiche esterne.  Centrale, nella sua attività politica, è stato l’impegno per l’emancipazione femminile; è stata presidente nazionale dell’Unione Donne Italiane.

Buongiorno on. Castellina e grazie per questa intervista.

Sono molto contenta di essere intervistata da uno studente dall’Università di Cassino perché una delle prime esperienze politiche che ho fatto con il Pci, era il 1947, e proprio con i tantissimi rifugiati che venivano da Cassino e dalla Ciociaria per scappare dal fronte; si erano rifugiati Roma, ed erano stati messi in una grande baraccopoli a Primavalle dove sono rimasti per parecchi anni. Allora la Federazione romana del Pci mandava noi della sezione universitaria a parlare con loro, con il sottoproletariato, finanche con le prostitute, affinché imparassimo a rapportarci con tutti. Questo fu molto formativo, mi ha insegnato a vedere come da un suddito può nascere un cittadino, che prende man mano coscienza che non deve chiedere, ma deve lottare per ottenere i suoi diritti.

 

Ha parlato dei suoi primi passi mossi in politica, ma è vero che ha trascorso la fanciullezza con Anna Maria Mussolini, l’ultima figlia del Duce, dalla quale ha imparato molto?

Con Anna Maria ho frequentato sia le scuole elementari che medie, era simpaticissima e spregiudicata, spesso trascorrevo i pomeriggi a villa Torlonia. Un nostro insegnante, il professor Giani, era talmente pauroso che, quando lei faceva qualcosa che non doveva, come riportare i giudizi negativi del padre sul Re o quando chiedeva spiegazioni perché aveva preso un voto più alto del compagno dal quale aveva copiato, si agitava tantissimo. Da lei ho imparato molto, soprattutto che potevano esistere pareri difformi, anche tra persone che apparentemente andavano d’accordo, come suo padre e il Re. Sempre con Anna Maria, il 25 luglio 1943, ci ritrovammo in vacanza a Riccione e mentre giocavamo a tennis vennero le guardie che la portarono via senza dirci nulla; noi sapemmo dell’arresto di Mussolini, della caduta del fascismo e dell’incarico a Badoglio, con il bollettino delle ore 8.00. Appena appresa la notizia, tutti si riversarono per strada per smantellare la casa del fascio. Il giorno dopo, presi un quaderno e iniziai a scrivere il mio primo diario, le prime parole che scrissi furono: «ieri è caduto il fascismo».

 

Lei è una donna dei primati, ha partecipato anche alle prime elezioni a suffragio universale del Parlamento europeo, qual era il clima che si respirava?

La mia candidatura fu abbastanza naturale, ero tra i fondatori del Partito di Unità Proletaria (PdUP) e prima ancora de Il Manifesto. Fui l’unica eletta della nostra lista e lo trovai da subito interessante, tanto che ci rimasi per vent’anni, capendo che tutti i deputati nazionali, per sapere com’è realmente il mondo, debbano trascorrere un periodo in Europa, per uscire dalla ristrettezza dei confini: non tanto per discutere di politica ma per andare a cena con i colleghi. Lì capisci molte più cose che se leggi i discorsi politici. Bisogna approfondire le esperienze umane e di vita, più che le posizioni politiche; ad esempio, gli italiani sono spesso in disaccordo a livello politico, però vanno tutti insieme a cenare la sera, invece, gli altri si dividono per gruppi politici: un conservatore non andrebbe mai a pranzo con un laburista; sono differenze da conoscere per fare l’Europa. Occorre un vero senso di comunità: finché i tedeschi pensano che i greci non vogliano lavorare, e i greci pensano che i tedeschi sono tutti nazisti, non ci sarà speranza. Bisogna fare una vita europea per creare una cultura europea che purtroppo non esiste, esistono ancora le culture nazionali. Attualmente l’unico leader, intelligentemente di sinistra, è Papa Francesco, infatti, sostiene che non serve una politica per i poveri ma una politica dei poveri e che non basta la carità ma serve la politica. Quando vedo nelle manifestazioni per la pace le bandiere rosse della Cgil insieme a quelle blu delle Acli e di Sant’Egidio penso a quanto saranno contenti Gramsci e Togliatti, in quanto – come è scritto nelle tesi del IX Congresso del Pci – hanno sempre sostenuto che una fede autenticamente vissuta può essere un grande contributo alla costruzione di un’alternativa al capitalismo. L’unico movimento realmente europeo è stato il pacifismo che è nato dal basso, dai movimenti giovanili.

Non serve cambiare i Trattati ma il modo di vivere. Da sempre la mia proposta è di istituire l’Erasmus non solo per gli studenti ma per tutti, iniziando dagli spazzini; ad esempio, la città di Roma dovrebbe mandare ogni anno uno spazino a Berlino, altrimenti girano solo le élite.

Inoltre, alle elezioni del ’79, per la prima volta, vennero elette molte deputate al Parlamento europeo perché contava di meno dei parlamenti nazionali ed allora era naturale mandarci le donne; ma è stato molto interessante poiché, essendo un numero considerevole, decidemmo di incontrarci per raccontare come vivevano le donne in ciascuno dei vari Paesi ed emerse che le leggi italiane per le donne erano più avanzate di quelle del nord Europa, anche se da noi non sempre le applicavano. Ad esempio, dal 1950, in Italia avevamo la legge Teresa Noce che dava sei mesi di maternità per ogni figlio mentre, nel resto d’Europa, arrivò molto dopo; anche la legge per la parità di salario, in Italia, fu approvata prima dell’Inghilterra, grazie alle Camere del lavoro che tutelavano ogni categoria, anche quella delle donne. Dopo questo confronto, le deputate degli altri Paesi, ci guardavano sbigottite perché consideravano l’Italia un paese feudale.

 

Nella prima legislatura al Parlamento europeo viene anche eletta Marisa Rodano, che ricordo ha di lei?

Marisa l’ho conosciuta molti anni prima del Parlamento europeo, nell’UDI, della quale ho nostalgia, che lei ha presieduto per molto tempo; entrambe sono state fondamentali per il miglioramento delle condizioni di vita delle donne. Quando hanno dato il voto alle donne, una parte del Pci era contrario, in quanto ritenevano che si sarebbero fatte influenzare dai parroci, ma nonostante Togliatti – che lo riteneva un enorme passo in avanti della società non sacrificabile per “quattro” voti – è stato essenziale l’attivismo dell’UDI.

Allora, noi pensavamo che dovessimo essere come gli uomini, ci sentivamo uomini un po’ handicappati. Marisa è stata così brava da aprire le porte alla nuova concezione femminista che ha cambiato profondamente anche noi; io mi sarei tagliata le “tette” per non far capire che ero donna. Per noi, un grande onore, era poter ricoprire nel Partito un ruolo da maschio. Non capivamo nulla.

 

Che rapporto c’era tra il gruppo de Il Manifesto e i cattolici del Pci?

Non molti. Anche se alcuni giovani democristiani, che avevano avuto un ruolo importante nel loro partito attraverso la rivista «Per l’azione» come Lucio Magri, che era stato direttore di quella rivista o Lidia Menapace, già assessore provinciale di Bergamo per la DC, fino a quando non venne chiusa perché considerata troppo di sinistra, aderirono prima al Pci e poi a Il Manifesto. In questo dibattito fu molto importante Franco Rodano con la sua rivista «Dibattito politico».

 

Onorevole, se dovesse lasciare in eredità una parola ai giovani di oggi, quale sceglierebbe?

La parola rivoluzione, naturalmente. Intendendo che bisogna cambiare questo mondo che non va bene per nulla; siamo arrivati ad un punto dove c’è bisogno di un cambiamento profondo e radicale perché il ritmo della distruzione sociale, culturale e ambientale è velocissima. La vera sconfitta è essere convinti che non cambierà nulla, dobbiamo avere fiducia, è indispensabile.

Un docente marxista dell’università di Tokyo, Saito Koei, ha scritto un libro “Marx nell’antropocene: verso l’idea del comunismo della decrescita” che ha venduto 500.000 copie nel solo Giappone e soprattutto tra i giovani under 30. Il libro presenta una lettura ecologica di Karl Marx, tema che egli affronta nella giovinezza e nella vecchiaia. Tutto questo interesse dimostra che i giovani hanno fame di certi temi.