di Andrea Pastore
 
La riforma del terzo settore ha dato finalmente gambe ai nuovi soggetti che, nel corso degli anni, in modo solidale e sussidiario hanno aiutato a creare sempre più comunità. Sulle comunità e sulla città è stato scritto tanto da sociologici e altri studiosi, ma vorrei riprendere invece uno scrittore: Italo Calvino, il quale scriveva che «le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure». Un messaggio che sembra essere stato scritto oggi in periodo di pandemia. In un momento storico come quello attuale, è necessario sempre più offrire risposte comunitarie e condivise per riuscire a sconfiggere le paure che animano le persone.
 
Una possibile risposta alla comunità ci viene grazie ad un nuovo soggetto, nato oramai più di cent’anni negli Stati Uniti, le community foundations. Da questa idea nata a Cleveland nel 1914 sono nate numerose esperienze distribuite in giro per il mondo e anche nel nostro paese: grazie prima al lavoro di Fondazione Cariplo e poi di Fondazione con il Sud sono nate numerose fondazioni sul nostro territorio nazionale. Quando parliamo di filantropia comunitaria e strategica spesso ci troviamo di fronte ad un modello di welfare non tradizionale, il cosiddetto secondo welfare, che trova declinazione nell’innovazione sociale: la capacità di generare risposte con modalità nuove ai bisogni presenti nei territori.
 
In questo momento storico, in cui abbiamo davanti a noi tante sfide, è necessario – come ha suggerito anche il Papa durante “The Economy of Francesco” – riflettere sulla sfida della costruzione di un modello economico di welfare nuovo e ibrido, capace di costruire insieme solidarietà, professionalità ed economia.
 
Delle fondazioni di comunità non esiste un modello unico, anche perché spesso si punta alla specificità del singolo territorio, puntando alla creazione di modelli ibridi organizzativi, sviluppando partnership organizzative, di reti e di risorse anche con le aziende for profit e nello stesso tempo mettendo al centro il dono e la comunità. La fondazione è uno strumento organizzativo capace di costruire reti e ponti grazie alle sue modalità operative e, allo stesso tempo, di trovare insieme alla comunità una risposta collettiva ai problemi in grado di proiettare nel futuro.  
 
Ritornando a quanto detto da Calvino, si può dire che senza responsabilità una Comunità non possa definirsi tale. Senza responsabilità non può esistere il senso della solidarietà e non possono esistere comportamenti giusti. È dalla responsabilità che nasce, dentro di noi, il senso dell’impegno civico, quell’impegno che ci induce a considerare il dono come un momento necessario per la determinazione del bene comune e come strumento per il miglioramento della qualità della vita.
 
Una fondazione di comunità è la vera fonte di responsabilità, perché educa tutti noi all’impegno sociale senza condizioni, senza attendere qualcosa in cambio.  Educa a provare gratitudine senza saperne il perché. È uno strumento unico, moderno, straordinario: l’unico in grado di rendere concreto il nuovo welfare di comunità. Il benessere di una comunità è quindi il risultato di un progetto complessivo posto al centro del governo di una rete di soggetti pubblici e privati che, in modo coordinato, si assumono collettivamente la responsabilità di realizzare, al di là degli specifici ruoli e interessi individuali, le condizioni per il pieno sviluppo di ciascun membro della comunità. È una proposta complessa ma concreta, le cui condizioni di realizzazione sono tutte alla nostra portata, anzi, forse più in Italia che altrove.
 
Abbiamo, infatti, un principio costituzionale come la sussidiarietà che legittima il ruolo attivo, responsabile e solidale dei cittadini singoli e associati. Abbiamo un Terzo Settore diffuso, radicato, autorevole, una riserva di energie e competenze preziose su cui fare affidamento per affrontare la crisi senza rinunciare ai traguardi civili e materiali raggiunti negli scorsi decenni.
 
Alla base di questo discorso c’è un principio guida dell’attività di una fondazione di comunità: l’essere di sostegno a progetti ed organizzazioni che fanno della partecipazione (di tutti gli attori interessati alla risoluzione di un problema) il cardine della propria azione. Le fondazioni, che per molti sono viste come dei meri soggetti erogatori, dovrebbero essere viste sempre più come un catalizzatore delle risorse di un territorio, cioè come il soggetto in grado di convocare attorno a tavoli progettuali tutti gli attori interessati per rispondere al bisogno della collettività. Ciò significa che una fondazione non potrà limitarsi ad interloquire con le sole organizzazioni non profit, con la sola pubblica amministrazione o con le sole imprese; il suo ruolo sarà quello di lavorare attorno a tavoli in cui si discutono (assieme ai tecnici, ai cittadini ed alle loro organizzazioni) i problemi collettivi, identificando soluzioni e mettendo in moto risposte che tengano conto di tutti gli interessi coinvolti.
 
Il principio della progettazione partecipata risponde ad una duplice esigenza: affermare il valore del confronto e della collaborazione attorno a questioni specifiche per la risoluzione dei problemi della collettività e, dall’altra parte, rendere minime le possibilità di conflitto tra soggetti – e massima la collaborazione – una volta che le strategie di azione siano state identificate e si inizi a perseguirle. Oggi questo principio trova collocazione nel sostenere le fondazioni quali soggetti capaci di promuovere e sostenere l’innovazione sociale. Ciò non significa adottare strategie eccentriche e inusuali ma, piuttosto, comprendere fino in fondo che – anche se le risorse di una fondazione non sono ragionevolmente in grado di risolvere nessuno dei problemi che una comunità locale si trova ad affrontare – nondimeno possono essere sufficienti per compiere “azioni dimostrative”, cioè per mostrare come i problemi stessi possano essere affrontati con strumenti e policies più efficaci e/o meno costose di quelle utilizzate fino al momento.
 
La fondazione, dunque, non risolve problemi ma può “mostrare come i problemi possono essere risolti meglio”, operando come attori del cambiamento, soggetti attivi delle politiche sociali, culturali, dell’istruzione, dell’ambiente; mirano a comprendere e a rimuovere le cause dei problemi sociali, non solo a tamponarne gli effetti.
 
Le Fondazioni (come, ad esempio, quello di San Gennaro con il progetto delle Catacombe, quella di Messina con il rilancio del Birrificio Messina, quella di Salerno con il progetto sperimentale “Una Speranza” per il dopo di noi) hanno lavorato in questi anni per quei progetti e quelle realtà che operano in modo sinergico, catalizzando molteplici risorse, diverse competenze, più soggetti e rispondendo quindi alle esigenze della collettività in modo non individuale, ma con dinamiche di rete e di partnership.
 
In conclusione, possiamo dire che l’obiettivo che si pone una fondazione è di generare impatto attraverso quello che rappresenta uno dei modi più efficaci per descrivere l’innovazione sociale: un insieme di azioni che danno vita a “innovazioni relazionali” per una nuova e più efficace interazione tra settore pubblico, grandi imprese e società civile in modo da essere capaci di offrire nuove e concrete risposte a bisogni sociali emergenti.  È necessario, dunque, sempre più promuovere il connubio tra welfare e filantropia. Servono tavoli comuni di confronto per innovare tecniche di intervento, focalizzare progetti comuni, coordinare le risorse che spesso arrivano in ordine sparso. Le fondazioni rappresentano quello strumento innovativo che introduce risorse capace di generare percorsi di economia civile ad alto valore di impatto sociale. Prendendo spunto anche dagli insegnamenti di Antonio Genovesi «il più grande ostacolo alla perfezione delle cose umane è il credere che siano perfettissime».