Nel cuore dell’Arabia Saudita, una terra dove la legge del qisas, ispirata all’antico principio di “occhio per occhio”, ha dominato per secoli e dove solo nel 2023 172 persone sono state giustiziate, seguendo questa legge, lo scorso aprile si è verificato un evento che potrebbe segnare l’inizio di un nuovo capitolo nella storia della giustizia saudita.

Il cittadino di la Mecca Ati Al Maliki ha infatti sorprendentemente deciso di perdonare Shaher Dhaifallah Al Harithi, l’assassino di suo figlio, salvandolo dalla pena di morte.

Tale episodio, videoregistrato e condiviso sui social network dov’è diventato velocemente virale, ha scosso le fondamenta di questo sistema, offrendo una visione alternativa di giustizia e umanità.

Il gesto di Ati Al Maliki, che ha scelto la via del perdono nella rigida cornice giuridica dell’Arabia Saudita, rappresenta un faro di umanità che illumina la possibilità di un approccio più compassionevole alla giustizia.

Questo atto di clemenza non solo ha salvato una vita, ma ha anche messo in discussione la natura stessa della punizione e della vendetta, aprendo un dialogo su come la giustizia possa essere esercitata in modo più costruttivo.

Anche per il sistema giuridico italiano, il quale tradizionalmente si concentra sulla punizione del reato piuttosto che sulla riparazione del danno e dei rapporti umani, l’esempio di Al Maliki offre una prospettiva rivelatrice.

L’approccio del nostro ordinamento penale si concentra principalmente sui fatti compiuti per irrogare una pena adeguata a chi commette un reato.

La giustizia riparativa si propone invece come un modello alternativo che valorizza la guarigione delle ferite piuttosto che l’isolamento del colpevole.

Questo approccio si focalizza non meramente sugli eventi trascorsi, ma guarda avanti, privilegia la restaurazione delle conseguenze negative del crimine, non fermandosi all’individuazione della pena che il colpevole è chiamato a scontare.

In questo processo di guarigione e riconciliazione, tutte le entità coinvolte — dalla vittima alla comunità, fino all’autore del misfatto — sono attivamente partecipi.

Con la Riforma Cartabia è stato introdotto nel codice di procedura penale l’articolo 129-bis che stabilisce la fondazione dei “Centri di giustizia riparativa”, istituzioni dove reo e vittima si incontrano e con l’aiuto di un mediatore imparziale cercano un accordo per riparare il danno causato dal reato.

Tale mediazione punta ad eliminare, come detto, le conseguenze negative del reato commesso, ma l’obiettivo non è necessariamente quello di raggiungere l’accordo per un risarcimento economico, infatti, la riparazione può essere anche simbolica.

L’art 43 del d.lgs 150/2022 (c.d. Riforma Cartabia) pone quale fine dell’incontro tra reo e vittima la riparazione all’offesa con l’intento di ricostruire la relazione tra i partecipanti.

Questo passo evidenzia la potente trasformazione che la giustizia riparativa può innescare nelle dinamiche sociali: non si tratta più di etichettare gli individui come “buoni” o “cattivi” sulla base degli errori commessi.

Piuttosto, la legge aspira a offrire all’autore del reato l’opportunità di redenzione e reintegrazione nella società e nella comunità di appartenenza, evitando l’isolamento carcerario, a condizione che vi sia un sincero pentimento e un impegno a riparare il torto subito.

Ad oggi, la normativa sui centri di giustizia riparativa è, però, pensata principalmente per i reati a querela di parte, dove l’esito positivo della mediazione porta al ritiro della querela ed all’estinzione conseguente del processo, mentre per il resto dei reati l’esito positivo della mediazione può far ottenere un semplice sconto della pena.

Allo stesso modo in cui Al Maliki ha scelto la misericordia, salvando l’assassino di suo figlio dalla morte, un sistema giudiziario incentrato sulla giustizia riparativa ha il potenziale di redimere migliaia di individui.

Non si tratta solo di sottrarli alla pena capitale, ma di liberarli dall’isolamento del carcere e dal giudizio spesso implacabile dell’opinione pubblica, fattori che ostacolano profondamente il loro reinserimento nella società.

Alla base della giustizia riparativa vi è quindi il perdono, che si contrappone al “contrappasso” che si pone a fondamento delle pene.

Tale contrapposizione viene ripresa anche da Papa Francesco, il quale nell’Enciclica “Fratelli Tutti”, afferma che perdono non vuol dire impunità, bensì giustizia e memoria, perché perdonare non significa dimenticare, ma rinunciare alla forza distruttiva del male ed al desiderio di vendetta.

Il perdono, quindi, diventa un ponte che collega il passato al futuro, permettendo alle persone di andare avanti insieme, verso un orizzonte di speranza e di rinnovata fraternità.