di Marta La Placa
 
Il 17 dicembre, Comunità di Connessioni ha incontrato Francesco Magni per un “focus” sul tema della scuola, in vista della ripresa prevista per il 7 gennaio, e considerata la delicatezza e la centralità del tema in questi mesi di pandemia. Francesco Magni, ricercatore di pedagogia all’Università di Bergamo ed esperto sul tema educativo, ci ha offerto alcuni spunti interessanti su diversi temi legati al rinnovo della scuola in questo periodo particolare e per il futuro.
 
Insieme abbiamo riflettuto su come la pandemia abbia evidenziato, usando le parole di Benedetto Croce, “quello che è vivo, e quello che è morto” del nostro sistema educativo. Innanzitutto, è divenuto evidente a tutti che la scuola è per il nostro paese di vitale importanza, come testimoniano le infinite discussioni sul tema di questi mesi. Anche la radicale differenza tra reale e virtuale è venuta a galla, provando quanto sia importante la relazione tra maestro e alunno, relazione i cui ruoli possono spesso variare e inter-scambiarsi, e che necessita di essere libera. Sia gli alunni che i maestri devono scegliere di implicarvisi liberamente, in quanto, ci ricorda Magni: “Non c’è educazione se non c’è libertà”.
 
Inoltre, in questi mesi sono emerse profonde disuguaglianze sociali ed economiche, che ci hanno posto di fronte al fatto che il nostro paese necessita di un approccio educativo pluralista. Non possiamo applicare un unico sistema per tutti; infatti, oltre alle differenze sociali tra i bambini e i ragazzi della stessa classe, evidenti nelle diseguali possibilità di accesso alla Didattica a Distanza (DAD), sono emerse anche differenze sostanziali a livello geografico-nazionale. In alcune città, non sarebbe stato necessario chiudere la scuola, mentre in altre la didattica a distanza avrebbe potuto essere maggiormente integrata o prolungata; inoltre, in alcune zone d’Italia si sarebbe potuta sperimentare la scuola all’aperto come soluzione effettiva al problema del contagio in spazi chiusi.
 
Ciascuna scuola è differente; si rivolge a un bacino sociale con delle peculiarità ed esigenze differenti. Queste differenze evidenti dovrebbero portare a una concessione di maggiore autonomia alle scuole, così da poter valorizzare le proprie peculiarità. Dovremmo forse ripensare il nostro sistema educativo, in termini non di “scuola setaccio”, dove i migliori continuano e vengono ricompensati per il loro genio e impegno, bensì in quelli di una “scuola lievito”. Questa ci offre un’immagine di un luogo silenzioso ma dinamico, in cui tanti semi possono crescere e germogliare secondo i propri talenti e tratti particolari, tenendo quindi conto dell’emergente pluralità della nostra società. I talenti premiati e coltivati a scuola non dovrebbero emergere secondo dei processi standard, quasi meccanici, ma premiare tutti: “dare a tutti la possibilità di giocare la propria partita”.
 
Soprattutto oggi, infatti, con i numeri sulla dispersione scolastica tra i più alti d’Europa e un tasso di natalità tra i più bassi, dobbiamo tutti renderci testimoni, più che maestri (come sosteneva Paolo VI), di nuove vie per ripensare e sviluppare il nostro sistema educativo, in quanto non vogliamo e non possiamo permetterci di lasciare indietro nessuno. In pratica, al tema della dispersione scolastica dovremmo affiancare e considerare anche quello del vuoto organico presente nel nostro sistema educativo, per cui all’inizio di ogni anno accademico ci sono migliaia di cattedre vuote, di concorsi mancati e di gente disoccupata nel settore. Se da un lato quindi non possiamo lasciar da solo nessun ragazzo, in nessuna regione e a nessun livello economico-sociale, dobbiamo anche assicuraci di non lasciare da parte gli educatori, sia nel loro processo di formazione che nella fase di entrata effettiva nel mondo dell’educazione.
 
La formazione, inoltre, dovrebbe essere continua e interconnessa all’esperienza pratica. La scuola è educazione nel senso più ampio del termine: gli studenti, come anche gli insegnanti, dovrebbero ricevere una formazione costante durante tutto il loro percorso di studi, che sia interconnessa e adeguatamente alternata ad esperienze lavorative. La teoria dovrebbe essere mischiata alla pratica in modo più costante, senza timore di sminuire l’importanza e la profondità teorica e culturale che da sempre hanno caratterizzato l’istruzione italiana. L’approccio teoretico dovrebbe essere sempre accompagnato ad uno pratico anche per valorizzare il fatto che la nostra Repubblica è fondata sul lavoro, come dichiara apertamente la nostra Costituzione.  L’educazione non dovrebbe essere meccanica, come una catena di montaggio che indirizza un individuo verso uno specifico lavoro e basta, ma a 360°, così che tutti gli studenti e i giovani abbiano la possibilità di imparare sempre, in un mondo che oggi è più mutevole che mai, come questi ultimi mesi ci hanno mostrato chiaramente.
 
Tutto ciò si può applicare facilmente all’educazione civica e alla cittadinanza, oggi inserita per la prima volta tra le materie obbligatorie in tutte le scuole. Quest’educazione, non dovrebbe essere indirizzata a formare l’individuo in quanto cittadino. Ognuno di noi infatti, nell’integrità della sua persona, è come se fosse più di una persona: da fratello a padre, da lavoratore a studente, da cittadino ad amico; l’educazione dovrebbe esser quindi per “tutte queste persone”, durante tutta la vita e “contaminante”. Ogni insegnamento dovrebbe essere contaminato da altri, da pratica e da teoria, così da poter davvero educare integralmente ogni studente o individuo.
 
Infine, come ha affermato Francesco Occhetta in chiusura Insegnare vuol dire mettere qualcosa dentro a qualcuno e lasciare un sigillo senza la volontà di chi lo riceve, mentre educare vuol dire far fiorire qualcosa che da sempre è stato creato dentro quella persona. La ri-forma della scuola oggi deve quindi mirare ad educare integralmente, più che a preparare tutti secondo standard prefissati.
 
 

Ecco qui la registrazione dell’incontro: