di Francesco Occhetta
Quando finisce un anno e ne inizia uno nuovo, il tempo che passa ci affida una triplice sfida: abitare la fine, il fine e il confine del tempo.
La “fine” segna ciò che non può più ritornare. È l’esperienza delle piccole e grandi morti che includono paure e relazioni, progetti e scelte. Vederle fallite o irrealizzate è fare esperienza della fine. Anche l’epidemia ci ha fatto fare esperienza di una fine sociale e politica. Per questo, nel suo messaggio di fine anno, il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha chiesto di ricostruire il Paese a livello morale e politico (vedi il discorso).
Quando qualcosa finisce o qualcuno muore, si è sempre in ritardo su quell’attimo, mancano sempre una parola da dire o una carezza da dare. Il cittadino adulto fonda la sua forza nella propria debolezza. Quello adultescente, invece, si ostina a fare il Peter Pan: vive da eterno adolescente, consumando continuamente esperienze. Per ricostruire occorre lasciarsi alle spalle le sirene dell’adultescenza e scegliere una cultura dell’età adulta.
C’è poi l’esperienza del fine, ovvero scegliere verso quale fine orientare la vita. Percorrere una strada esclude tutte le altre possibili, ad esempio, se volo verso l’Asia non posso andare in America Latina. Scegliere è giocarsi nel tempo della vita. Prima della scelta in sé, è importante capire cosa scegliere, e i dibattiti sul futuro del Paese indicano che la questione da focalizzare meglio è proprio questa.
C’è poi l’esperienza del confine: essere nel mondo, ma non del mondo. È il già e il non ancora: si piange ma si può anche gioire; si vive in un mondo ingiusto e di violenze, ma esistono anche esperienze di giustizia e di pace; si muore ma si fa esperienza di vita eterna. L’esperienza del confine anima anche la vita sociale e politica. L’alternativa ai potenti e prepotenti sono coloro che ricostruiscono il mondo senza fare rumore. Il Presidente della Repubblica ne ha scelti alcuni in rappresentanza di molti, proprio a loro ha attribuito le onorificenze al Merito della Repubblica. Sono loro che dobbiamo guardare e che il giornalismo dovrebbe narrare.
Per i greci il tempo era il chrónos ma anche il kairós. Il primo scorre, il secondo è la dimensione in cui accade “qualcosa”. Chrónos è quantitativo, kairós ha invece una natura qualitativa, è il tempo delle scelte, quando la luce entra nelle tenebre e permette di distinguere il bene dal male. L’ansia diffusa, le paure e la ribellione del corpo sociale emergono quando si vive passivamente il chrónos dimenticandosi della bellezza del kairós. Omologarsi sul fare fa perdere a noi tutti la memoria dell’essere. Eppure, abitare il (proprio) tempo per scoprire il kairós è l’inizio di ogni libertà e fondamento di ogni responsabilità politica e sociale.
L’alternativa è quella descritta da Samuel Beckett, nel suo Finale di partita. Nel dialogo tra due protagonisti, Hamm chiede: «Che ora è?», il servo Clov gli risponde: «La stessa di sempre». Possiamo continuare a sopravvivere in un tempo sempre uguale e privo di senso? Ci conviene continuare a dire che ieri era meglio senza desiderio di costruire il domani?
L’apostolo Paolo lo ricorda senza mezzi termini quando scrive ai Corinti: «Il tempo si è fatto breve… passa la scena di questo mondo». Corinto era un crocevia di commercianti e di intellettuali, di affaristi e di prostitute, di imbroglioni e di viziosi. Era abitata da seicentomila abitanti ma la comunità a cui Paolo scrive era formata da poco più di cento persone. Erano poche, ma per ricostruire non conta la quantità: è su una comunità e sulla qualità umana di chi ne fa parte che occorre scommettere.
L’apostolo parla di tempo come kairós e non come chrónos. A noi che lo leggiamo oggi, non chiede di ritirarsi, ma di ristabilire una gerarchia di valori per vivere perché «quelli che piangono (vivano) come se non piangessero». È un “altro” modo di vivere e di situarsi nella realtà che può cambiare questo mondo così caduco e pragmatico. Occorre avere nostalgia del futuro, non del passato, per governare questi tempi difficili: vincerà chi giocherà il jolly della solidarietà. Comunità di Connessioni lo sta ribadendo da tempo, credendo nell’Europa e nel “local-umanesimo”, come hanno recentemente scritto anche Ciro Cafiero e Giulio Stolfi (La forza del “locale”; Rimarrà il paese?).
La ricetta è già scritta tra le pagine della storia. Si ricostruisce così, lo ha ricordato anche Tolkien con una sua potente immagine: «Le radici profonde non gelano. Dalle ceneri rinascerà un fuoco».