La società globale contemporanea, a mio parere, assomiglia a un vagone della metropolitana di Roma, affollato di culture diverse e persone disinteressate che viaggiano rapidamente e senza controllo avanti. Il disinteresse delle persone si manifesta su due livelli: il primo è l’indifferenza verso lo spazio circostante e le persone presenti, indipendentemente da chi entra o esce, dall’aspetto fisico degli individui, dal ruolo che essi ricoprono nella struttura sociale o dalla realtà sociale stessa dentro il vagone. Il secondo livello di disinteresse emerge dal fatto che la maggior parte dei passeggeri non si pone mai domande su ciò che accade alle altre fermate o su come sia la propria destinazione finale del vagone. È possibile interpretare questo comportamento come parte di un rituale comune e anche considerare il disinteresse reciproco come forma di disattenzione civile e cortesia?

Per chiarire, il concetto di disattenzione civile a livello micro generalmente si definisce come un comportamento che manifesta rispetto verso gli altri. Tale comportamento si evidenzia, ad esempio, nell’abbassare lo sguardo quando si incrocia qualcuno per strada o quando ci si trova nello stesso ambiente. Questo gesto suggerisce l’assenza di qualsiasi intenzione di temere l’altro, di sospettare delle sue intenzioni o di manifestare ostilità o desiderio di evitamento.[1] Tuttavia, la situazione attuale non sembra riflettere questo principio, poiché il concetto di disattenzione civile presuppone un comportamento rispettoso verso l’altro. Nella nostra realtà, è raro che i giovani si alzino per cedere il posto agli anziani o ai lavoratori fisici che, visibilmente esausti, restano in piedi dopo un’intensa giornata di lavoro, respirando l’aria soffocante di uno spazio confinato. Questo comportamento indica piuttosto una prevalenza di indifferenza e individualismo, poiché si tratta dell’abbassamento dello sguardo di fronte alla personalità dell’altro e ai suoi bisogni.

Siamo tutti partecipi dello stesso rituale?

Ognuno di noi concorderà che i rituali sono una parte essenziale della nostra quotidianità. Sono qualcosa di così reale, ma allo stesso tempo così astratto e non riducibile a una singola realtà. Discutere di rituali (collettivi) implica anche discutere dell’integrazione o disintegrazione degli individui nella struttura sociale. D’altra parte, la funzione dei rituali è quella di creare coesione di gruppo [2] e essi, come attività condivisa, volontaria e intellettuale, generano un senso di unità, un senso di ‘noi’ [3]. Ogni incontro quotidiano reciproco con un’altra persona rappresenta un rituale. Secondo Goffman, rituali sono meccanismi per preservare l’ordine sociale e morale, rafforzando le identità personali e i legami tra le identità che si acquisiscono attraverso il processo di socializzazione. Infatti, nessuno nasce membro della società, ma con una predisposizione alla socialità [4].  Per distinguere esistono rituali positivi e negativi; i positivi sono come un’apertura verso l’altro, mentre quelli negativi servono per distaccarsi e preservarsi di fronte all’altro e mantenere il proprio status.

Quindi, è legittimo chiedersi come è possibile conseguire l’unità con la testa chino e rituali negativi in cui ci proteggiamo dall’altro, facendo del nostro meglio per evitare incroci di sguardi e per non esporci?

Mettendo le cuffie, ci allontaniamo ulteriormente da quella realtà, insensibilizzando un altro senso di fronte all’altro, che non sentiamo né vediamo più. Tramite internet e telefono siamo connessi e stiamo  in una relazione che salta  il prossimo che mi sta attorno. Quindi fuggiamo da questo rituale, saltiamo la comunità e cerchiamo essere subito coinvolti in una società che, infatti, deve essere composta dalle micro-interazioni. Se siamo capaci al livello micro chiudere gli occhi davanti agli altri, lo faremo sicuro al livello macro, dove neanche siamo coinvolti direttamente con il corpo fisico. Su questo ci avvisa pure il papa: «La vera saggezza presuppone l’incontro con la realtà. Ma oggi tutto si può produrre, dissimulare, modificare. Questo fa sì che l’incontro diretto con i limiti della realtà diventi insopportabile. Di conseguenza, si attua un meccanismo di “selezione” e si crea l’abitudine di separare immediatamente ciò che mi piace da ciò che non mi piace, le cose attraenti da quelle spiacevoli».[5] Una critica legittima potrebbe sostenere che siamo interconnessi attraverso un rituale negativo. Tuttavia, non si tratta di un rituale negativo. Uno degli indicatori più importanti per essere inclusi nello stesso rituale è sia il volto dell’altro che la relazione stessa. Noi, abbassando lo sguardo, insensibilizzando l’ascolto e mostrando non rispetto ma indifferentismo verso l’altro, non entriamo in relazione con lui e fuggiamo da ogni occasione di stabilire una relazione.

Se ci poniamo la domanda: “Dove si trova il confine tra la cortesia della disattenzione civile e il relativismo morale?”, la risposta sta nel tentativo di soddisfare solamente il sentimento di piacere avendo un disagio accanto a un’altra persona. Infatti, tutto inizia con il dominio di «un’indifferenza di comodo, fredda e globalizzata, figlia di una profonda disillusione che si cela dietro l’inganno di una illusione: credere che possiamo essere onnipotenti e dimenticare che siamo tutti sulla stessa barca».[6] Quindi, come possiamo aspettarci un cambiamento a livello globale quando non troviamo piacere nell’essere immersi nella prossimità e cerchiamo sempre una via di fuga nella falsa relazione virtuale? Qual è la differenza tra queste due realtà? La differenza risiede nel fatto che la prossimità non può assumere una connotazione negativa; è attiva e aperta verso l’altro. Gesù ci chiede chi sia stato il prossimo dell’uomo ferito, non con chi egli era in relazione. Infatti, l’uomo semi-morto si trova in relazione con tutte e tre le persone, ma solo il Samaritano si dimostra essere il prossimo. [7] Buon Samaritano ha dedicato il proprio tempo all’uomo ferito, mentre noi, talvolta, non alziamo neanche lo sguardo verso gli altri. Secondo te, gli altri due passanti, il sacerdote e il levita, hanno dimostrato un comportamento di disattenzione civile o di relativismo morale? Questo esempio evidenzia la possibilità di ridurre una relazione alla mera presenza fisica, mentre il Samaritano è stato il suo vero prossimo. La prossimità è qualcosa che non si può ignorare perché, senza essa, non è possibile stabilire una vera e sana relazione.

Il concetto di fraternità ci insegna che ciascuno di noi è importante (prossimo), significando la necessità di prestare attenzione, osservare ciò che ci circonda e cercare di comprendere la ricchezza e la dignità dell’altro, persino il miracolo dell’altro. Ignorando la prossimità e mantenendo l’indifferenza, creiamo la possibilità di lasciare qualcuno soffrire per trentotto anni.[8] Questa sofferenza era il risultato dell’individualismo e relativismo morale. Gesù, curando un paralitico a Bethesda, ci fa comprendere l’importanza di ogni persona, anche di quelle marginalizzate, ma prossime. Papa Francesco dice che tutto è collegato:[9] così, se ci comportiamo a livello micro con relativismo morale, ciò diventa una realtà globale perché il bene comune non può essere compreso diversamente da una moltiplicazione dove, se uno vale zero (1x1x1x0 = 0), il risultato sarà zero. Dunque, la cortesia non include in sé l’ignoranza e il fastidio verso l’altro, ma è composta di rispetto reciproco. Le prime due cose portano a un relativismo morale e a un relativismo radicale. Fraternità ci permette discernere, attraverso il significato del termine prossimità, il vero confine tra disattenzione civile e il relativismo morale. Sia la prossimità che il relativismo morale sono guidati dal sentimento di piacere; tuttavia, la prossimità aspira a soddisfare il piacere dell’altro attraverso compassione e apertura, mentre il relativismo morale è focalizzato sui piaceri personali, segnati da individualismo e chiusura.

Concluderei con le parole di papa Francesco:

«In questo mondo che corre senza una rotta comune, si respira un’atmosfera in cui «la distanza fra l’ossessione per il proprio benessere e la felicità dell’umanità condivisa sembra allargarsi: sino a far pensare che fra il singolo e la comunità umana sia ormai in corso un vero e proprio scisma. […] Perché una cosa è sentirsi costretti a vivere insieme, altra cosa è apprezzare la ricchezza e la bellezza dei semi di vita comune che devono essere cercati e coltivati insieme». La tecnologia fa progressi continui, ma come sarebbe bello se alla crescita delle innovazioni scientifiche e tecnologiche corrispondesse anche una sempre maggiore equità e inclusione sociale! Come sarebbe bello se, mentre scopriamo nuovi pianeti lontani, riscoprissimo i bisogni del fratello e della sorella che mi orbitano attorno!»[10]

[1] Erving Goffman, Behavior in public places: notes on the social organization of gatherings, A Free Press paperback. 91194 (New York: Free Press, 1966).

[2] Clifford Geertz, The Interpretation of Cultures: Selected Essays, Harper Colophon Books (New York: Basic Books, 1973), http://purl.fdlp.gov/GPO/gpo12195.

[3] S. J. Gordon George, «The Sociology of Ritual», The American Catholic Sociological Review 17, fasc. 2 (1956): 117–30, https://doi.org/10.2307/3708893.

[4] Peter L. Berger e Thomas Luckmann, The Social Construction of Reality: A Treatise in the Sociology of Knowledge (London: Penguin Books, 1991).

[5] Fratelli tutti (FT) n. 47

[6] FT n. 30

[7] Cfr. Lc 10, 25-37

[8] Cfr. Giov 5, 1-15

[9] Cfr. FT; Laudato Si’

[10] FT n. 31