Il mondo dei giovani, oggi, sembra seguire una storia completamente diversa da quella delle generazioni precedenti. Ciò che non era mai accaduto dal secondo dopoguerra è diventato realtà: i figli sono più poveri dei padri[1]. Quanto? Secondo l’Osservatorio Silver Economy Censis 2023, una famiglia con a capo una persona anziana ha una ricchezza media superiore di oltre il 50% rispetto a un nucleo con capofamiglia con età sino a 40 anni[2].

La distanza economica tra generazioni è solo un aspetto del divario intergenerazionale che, nel nostro Paese, sta emergendo in modo sempre più evidente. Il gap che una generazione successiva – ovvero, quella dei giovani – sconta rispetto a quella precedente – ovvero, tendenzialmente, quella degli over 65 con alle spalle una carriera lavorativa stabile, un patrimonio di una certa entità e, in ultimo, una pensione dignitosa – ha anche un portato sociale e politico. Il rischio che corriamo se questo squarcio non viene in qualche modo ricucito, è quello prefigurato da Papa Francesco in Evangelii Gaudium, ovvero di “abbandonare nella periferia” una parte della nostra società[3].

Innanzitutto, per capire come poter intervenire e quali lembi del tessuto riunire, dobbiamo identificare chi sono i giovani. Per farlo, dobbiamo porci sia una domanda sui loro dati anagrafici, ma anche e soprattutto sulle loro condizioni di vita. Partendo dal dato anagrafico e facendo riferimento alle statistiche in ambito nazionale ed elaborate da Istat, potremmo fare riferimento con particolare attenzione alla fascia dai 15 ai 34 anni. Uno spazio di vita che, grossomodo, ricopre gli anni delle scuole superiori e che si conclude nell’età matura, quando in media, come dalle statistiche del Ministero della Salute, si diventa genitori[4].

Ma più che su termini anagrafici, i giovani nel nostro Paese possono essere identificati provando a osservare qual è la loro condizione di vita e quanto essa, per tornare al punto precedente, sia distante da quella della generazione precedente. In questo caso, è utile indagare l’autonomia economica, ma anche lavorativa e abitativa.

Purtroppo, il quadro nel nostro Paese è piuttosto desolante. Il tasso di disoccupazione giovanile, nell’ultima rilevazione di Istat relativa a giugno, è risultato essere in calo attestandosi al 21,3%[5]. Una diminuzione che non può che essere considerata positivamente, ma che non nasconde la natura, spesso prevalente, del lavoro svolto dai giovani. In questo senso, una ricerca di Eures, realizzata in collaborazione con il Consiglio nazionale dei giovani, ha acceso i riflettori andando oltre il dato numerico. Essa specifica come meno di un giovane lavoratore su due percepisca una retribuzione fissa mensile e che oltre il 40% del campione selezionato di under 35 riceva uno stipendio mensile inferiore a mille euro[6].

In termini generali, infatti, i giovani, in confronto ai più anziani, sono più facilmente esposti alla precarietà e impiegati in settori – turismo, commercio, servizi – dove la stagionalità e l’instabilità sono la prassi. A dimostrazione di ciò, la crisi socio-economica dovuta all’emergenza sanitaria scatenata dalla diffusione del Covid è stata pagata prevalentemente dai giovani[7], che hanno perso più facilmente il lavoro, faticando poi nel ritrovarlo, e finendo, spesso, in situazioni di povertà: i dati del Ministero dell’Economia e delle Finanze, per esempio, evidenziano come l’incidenza maggiore della deprivazione materiale ed educativa si registri tra i giovani, e non tra gli over 65[8].

Non è difficile capire come, in un simile contesto, da un lato, l’incombente fenomeno del lavoro povero riguardi particolarmente proprio i giovani[9], che nonostante un’occupazione non riescono, comunque, a condurre una vita dignitosa; dall’altro, invece, come questa precarietà renda impossibile l’elaborazione di un piano di vita, come, appunto, la genitorialità, o investimenti a medio-lungo termine, grazie ai quali, per esempio, può essere ottenuta l’uscita dalla casa dei genitori. In entrambi i casi, infatti, l’Italia è al di sopra della media europea[10].

E, allo stesso tempo, s’intuisce il collegamento tra questa condizione, che Umberto Galimberti ha definito come “crisi culturale”, perché “il futuro che la nostra cultura prospetta ai giovani non è una promessa come lo era per i loro padri, ma qualcosa del tutto imprevedibile” e che, dunque, “non retroagisce come motivazione capace di sostenere l’impegno richiesto dallo studio”[11], e quella di numerosi giovani che hanno scelto il “ritiro volontario” dal mondo. Parliamo del fenomeno dei NEET, ovvero giovani tra 15 e 29 anni che non studiano, non lavorano e non sono impegnati in percorsi di formazione: i dati Eurostat riferiti al 2022, per l’Italia, confermano un trend quantomai negativo, con i ragazzi al 17,7% e le ragazze al 20,5%, ben oltre la media europea dell’11,1%[12]. In sostanza, sono circa 1,7 milioni di giovani, quasi un quinto della fascia d’età di riferimento[13]; che, talvolta, soprattutto tra gli under 19, sfociano nel dramma degli hikikomori, ovvero ragazzi e ragazze che scelgono di non uscire più di casa, smettendo così di frequentare scuola e amici e mantenendo i contatti prevalentemente attraverso internet. In Italia, si stima che ci siano 54mila casi tra gli studenti delle scuole superiori[14].

Questo brevissimo sguardo gettato sul mondo giovanile ci restituisce un pezzo di società “altro” rispetto a quello della generazione che ha vissuto gli anni del maggior benessere economico. L’obiettivo, per ritornare alle parole di Papa Francesco, è quello di recuperare dalla periferia questa parte di noi e riportarla al centro. Ciò, però, non può essere fatto con lo stesso punto di vista con cui si è arrivati a questo punto: occorre ribaltare la nostra prospettiva e guardare al mondo con gli occhi dei giovani.

La valutazione di impatto generazionale delle politiche pubbliche va in questa direzione: non solo essa permetterebbe, finalmente, di introdurre una cultura valutativa nel nostro modo di elaborare e implementare le politiche e la legislazione, ma garantirebbe anche una stima degli effetti che avrà ogni singolo intervento pubblico sui più giovani e sulle nuove generazioni. Per questo, rendere obbligatoria per legge una valutazione ex ante ed ex post per orientare l’azione pubblica e valutare i risultati di ciascuna politica pubblica, in modo eventualmente da introdurre correttivi o sperimentare nuovi strumenti, ci permetterebbe di indossare un paio d’occhiali diverso per cogliere con maggior dettaglio la nostra realtà.

Ricucire con i giovani significa così garantire i diritti di cui hanno goduto i più anziani, da quello al lavoro a quello alla previdenza, che la ricerca di Eures e Consiglio nazionale dei giovani ha evidenziato essere ormai compromesso: per i lavoratori dipendenti che oggi hanno meno di 35 anni, un assegno di poco superiore ai mille euro può essere ottenuto soltanto restando a lavoro sino al 2057, ovvero alla soglia dei 74 anni[15]. Uno squilibrio inaccettabile, per il quale serve agire. Per farlo, occorrerebbe anche valorizzare maggiormente il ruolo dello stesso Consiglio nazionale dei giovani e immaginare una legge quadro sui giovani che razionalizzi le agevolazioni esistenti in un unico testo e apra, finalmente, un’altra stagione.

 

[1] F. Rampini, “Quei figli più poveri dei padri, gli anni Duemila come il Dopoguerra”, La Repubblica, 13 agosto 2016.

[2] M. Bollino, “Anziani più ricchi del 50% rispetto ai giovani: la ricerca di Censis-Tendercapital”, Agenzia Dire, 16 maggio 2023.

[3] Francesco, es.ap. Evangelii Gaudium, 59, 24 novembre 2013.

[4] L’età media della madre è di 33,1 anni per le italiane mentre scende a 31 anni per le cittadine straniere. L’età media al primo figlio è per le donne italiane, quasi in tutte le Regioni, superiore a 31 anni. Cfr. Rapporto annuale sull’evento nascita in Italia, i dati 2021 su gravidanza e parto, sito del Ministero della Salute, 7 ottobre 2022, consultato il 4 settembre 2023.

[5] Occupati e disoccupati (dati provvisori) – Giugno 2023, Comunicato stampa, sito di Istat, 1° agosto 2023, consultato il 4 settembre 2023.

[6] S. Valente, “Lavoro, Eures: in Italia il 43% degli under 35 guadagna meno di mille euro al mese”, Milano Finanza, 9 agosto 2022.

[7] C. Tucci, “Giovani, donne, precari: ecco chi ha pagato di più la crisi del lavoro”, Il Sole 24 Ore, 1° febbraio 2021.

[8] La condizione dei giovani in Italia e il potenziale contributo del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza per migliorarla, sito del Ministero dell’Economia e delle Finanze, 7 marzo 2022, consultato il 4 settembre 2023.

[9] M. Carucci, “L’emergenza occupazione. Il lavoro povero colpisce donne e giovani”, Avvenire, 28 aprile 2023.

[10] Per quanto riguarda la genitorialità, cfr. M.P. Mosca, “Europa, perché si fanno pochi figli e tardi?”, Il Sole 24 Ore, 14 maggio 2023; Per quanto riguarda la fuoriuscita dalla casa dei genitori, cfr. “Vero: i giovani in Italia lasciano casa intorno ai 30 anni d’età”, Pagella Politica, 9 settembre 2022.

[11] U. Galimberti, La parola ai giovani. Dialogo con la generazione del nichilismo attivo, Feltrinelli, Milano, 2018, p. 11.

[12] “Italia ultima in UE per ragazzi che non studiano e non lavorano”, La Stampa, 26 maggio 2023.

[13] “Istat, giovani in difficoltà, 1,7 milioni di Neet”, Ansa, 7 luglio 2023.

[14] Hikikomori: indagine sul ritiro sociale volontario dei giovani italiani, a cura di S. Cerrai, S. Biagioni, S. Molinaro, Gruppo Abele/Consiglio nazionale delle ricerche, marzo 2023.

[15] “Presidente CNG: ‘Se Non Si Interviene, Giovani In Pensione Quasi A 74 Anni’”, 9 agosto 2023, sito del Consiglio nazionale dei giovani, consultato il 4 settembre 2023.