La polemica tra il Governo e la Magistratura di questi mesi continua a espandere una crepa nel nostro sistema democratico. Sono bastate le vicende giudiziarie che hanno coinvolto la ministra Daniela Santanchè, il sottosegretario Andrea Delmastro e il figlio del Presidente La Russa per determinare un duro botta e risposta tra i due poteri. Da una parte il Governo in un comunicato ha accusato la Magistratura di “schierarsi faziosamente nello scontro politico”, dall’altra Giuseppe Santaluicia – Presidente dell’Associazione nazionale magistrati a cui appartengono 9.149 magistrati sui 9.657 in servizio – ha ritenuto la posizione del Governo “pesantissima” che “delegittima” la magistratura e la colpisce “al cuore”.

In realtà lo scontro di inizio estate è solo la goccia che fa traboccare il vaso di trent’anni di polemiche con due elementi nuovi: il vuoto lasciato da Berlusconi e la radicale riforma del Ministro Nordio che incide sulle misure cautelari, l’avviso di garanzia, sull’appellabilità delle sentenze di assoluzione per i reati “meno gravi” e, in generale, sulla revisione del codice penale e di procedura penale.

Alcuni analisti la definiscono “una guerra a bassa densità” iniziata nel 1992 con tangentopoli e proseguita con l’abuso degli avvisi di garanzia che condannano prima del processo e la minaccia del “tintinnar di manette”: immagine utilizzata al Consiglio Superiore della Magistratura da Oscar Luigi Scalfaro, all’epoca Presidente della Repubblica e dello stesso Consiglio. Erano gli anni dell’abolizione dell’immunità parlamentare, del decreto-legge “salva-ladri” dell’allora ministro Biondi e di alcune leggi approvate per limitare il potere giudiziario.

In realtà, il rapporto, inscritto nelle Costituzioni, tra potere politico e magistratura è come la vedetta sul ponte di comando di una nave: consente di valutare la qualità e la vita della democrazia stessa. Sono l’armonia e l’equilibrio tra i poteri e il rispetto del principio di legalità (anche costituzionale) in un Paese a indicare se l’idea di giustizia è condivisa. Quando invece un Paese inizia a dividersi sulle riforme della giustizia, sulle finalità e la cogenza della legge, sul rapporto tra la magistratura e gli altri poteri dello Stato, sul modo di riabilitare i detenuti, allora occorre ripensare, integrare o addirittura fondare di nuovo il significato di giustizia a partire dalle scuole e dal dibattito sociale. La lunghezza dei processi, l’imporsi di forme di giornalismo giustizialista e la situazione in cui versa il sistema carcerario italiano sono tra le conseguenze più evidenti di un modello di giustizia in crisi.

Eppure lo scontro potrebbe ridursi attraverso un dialogo istituzionale maturo e gestendo il potere non come una continua prova di forza ma come un servizio ai cittadini. La classe politica per non temere nulla basterebbe che garantisse credibilità – la capacità di non essere falsificata da azione contrarie alle loro promesse – competenza e onestà. Alla stessa Magistratura basterebbe rispettare la forma e la sostanza del mandato costituzionale per amministrare la giustizia con “disciplina e onore”, evitando per esempio le fughe di notizie o la strumentalizzazione degli avvisi di garanzia.

Per il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, la via maestra per trasformare il potere della magistratura in servizio è il ritorno all’etica personale e professionale. Nei suoi nove discorsi alla magistratura tenuti in questi anni al Quirinale o nella sede della scuola di Magistratura a Scandicci è possibile ricavare 7 principi guida : 1) Anzitutto «coltivare l’etica del dubbio e rifiutare ogni forma di arroganza cognitiva»; 2) curare il rispetto e la correttezza quando si comunica; 3) rifiutare ogni forma di protagonismo e di individualismo giudiziario; 4) dare esempio di sobrietà nella condotta individuale; 5) rispettare il confine tra l’interpretazione della legge e la creazione arbitraria della regola; 6) rispettare la deontologia per la crescita professionale; 7) coltivare la dimensione etica per garantire il rispetto dei doveri di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo, equilibrio, rispetto della dignità della persona. Oltre al Presidente, anche la Corte costituzionale è di recente intervenuta su uno degli aspetti di questo rapporto complesso: con la sentenza n. 170 del 27 luglio, ha dichiarato che la Procura non poteva acquisire, senza preventiva autorizzazione del Senato, messaggi di posta elettronica e whatsapp del parlamentare, o a lui diretti, conservati in dispositivi elettronici appartenenti a terzi, oggetto di provvedimenti di sequestro nell’ambito di un procedimento penale a carico dello stesso parlamentare e di terzi.

Insomma, le due istituzioni di garanzia del nostro sistema democratico invitano alla responsabilità di ciascun interprete dei poteri dello Stato, magistrati e politici, c’è in gioco la coesione della nostra democrazia.