di Giuseppe Morgante
 
La pandemia di Covid-19 ha reso necessaria l’adozione di provvedimenti volti ad arginarne la diffusione, attraverso la limitazione della possibilità di incontro tra le persone. Ciò ha richiesto (e continua a richiedere) un bilanciamento, tra i diritti sociali ed economici e il bene della salute, che presuppone una visione di lungo periodo e adeguate capacità di valutazione delle conseguenze dei provvedimenti adottati, sia sul fronte sanitario che su quello economico.
 
Infatti, alcune delle misure di contenimento più severe hanno determinato la sospensione delle attività economiche ritenute non essenziali, causando una contrazione sia della domanda che dell’offerta. I rigidi lockdown imposti hanno provocato, in questo modo, la più grave crisi economica del dopoguerra. I numeri appaiono scoraggianti: recenti analisi indicano che durante il secondo trimestre del 2019 il PIL dei paesi dell’area Euro sia diminuito del 7,8% e quello italiano del 9.9%. Crisi che, in Italia, viene accentuata dalla insostenibilità del debito pubblico, che si attesta su livelli eccessivamente alti (160% del PIL).
 
Ci si potrebbe soffermare ancora di più sui dati e sulle proiezioni statistiche della pandemia, analizzando nel dettaglio le sue conseguenze sull’inflazione, sulla disoccupazione e sull’indebitamento pubblico e privato, ma sarebbe, in queste poche righe, un esercizio sostanzialmente superfluo. Infatti, come ben raffigurato nell’immagine descritta dall’ex presidente della BCE Mario Draghi, le nostre economie si trovano ancora “sull’orlo di un precipizio”.
 
Le conseguenze economiche della crisi, già oggi pesanti, non si sono ancora rivelate nella loro piena gravità e sono caratterizzate da un alto grado di incertezza. La possibilità di una ripresa dipenderà, in maniera preponderante, dagli Stati: da un lato dalla loro capacità di attuare intelligentemente politiche di spesa che, minimizzando il ricorso all’indebitamento, siano in grado di far ripartire l’economia e, dall’altro, dall’efficacia delle misure di contenimento nell’evitare una terza ondata e dall’intensità degli sforzi per vaccinare la popolazione.
 
A fronte di questa situazione complessa, possiamo tuttavia cogliere dei segnali di speranza, che aprono uno spiraglio positivo sul futuro dell’economia europea e del nostro Paese che coincidono con i “vettori per la rinascita” citati dal presidente Sergio Mattarella nel suo discorso di fine anno.
 
Il primo riguarda certamente la possibilità di intravedere la fine della crisi sanitaria. Alla luce delle recenti autorizzazioni dell’EMA (e di quelle attese nelle prossime settimane) e dell’avvio del piano di somministrazione dei vaccini, il fondamentale obiettivo di vaccinare l’intera popolazione entro la fine dell’anno appare alla nostra portata.
 
Il secondo segnale positivo riguarda la risposta delle istituzioni europee alla crisi. Dobbiamo riconoscere che questa volta l’Unione ha dato prova di avere una visione chiara, anteponendo la solidarietà tra gli Stati membri agli egoismi dei singoli.
 
A tal proposito due sono gli elementi sui quali vale la pena soffermarsi. In primis, le misure straordinarie messe in atto dalla Banca Centrale Europea, tra le quali certamente il PEPP (Pandemic Emergency Purchase Programme), un programma di riacquisto di titoli pubblici e privati, al quale è stata assegnata una dotazione di 1850 miliardi di euro fino al marzo del 2022. Tali provvedimenti, insieme al mantenimento di bassi tassi d’interesse, si stanno rivelando essenziali nel garantire la stabilità finanziaria dell’area Euro e nel limitare l’indebitamento pubblico.
 
In secondo luogo, l’accordo (Next Generation EU) raggiunto dai paesi dell’Unione nell’ambito del quadro finanziario pluriennale 2021-2027 con il quale si concede alla Commissione la possibilità di contrarre dei prestiti sui mercati dei capitali fino a 750 miliardi di Euro, che dovranno essere utilizzati esclusivamente per affrontare le conseguenze della pandemia (ripartiti in 390 miliardi per sovvenzioni e 360 per prestiti).
 
Si tratta di una risposta “politica”, per certi versi rivoluzionaria, che non ha nessun precedente nella storia dell’Unione Europea: per la prima volta si è deciso di mutualizzare il debito a livello delle sue istituzioni. Ciò produrrà degli enormi benefici per Paesi dalle finanze pubbliche più fragili; infatti, se è pur vero che gli aiuti concessi dall’Unione continueranno a costituire debito, esso sarà contratto a condizioni molto più favorevoli rispetto a quelle che tali Stati potrebbero ottenere singolarmente.
 
Infine, un ultimo segnale di speranza riguarda la possibile inversione delle tendenze protezionistiche che avevano caratterizzato le politiche economiche degli ultimi anni. In questo senso dobbiamo intendere le manifestazioni di solidarietà tra Stati avvenute durante la pandemia, la fine della presidenza Trump (almeno per quanto riguarda le relazioni tra UE e Stati Uniti), l’accordo sugli investimenti tra Cina e UE e quello di libero scambio tra i paesi del pacifico (RCEP) e, perché no, guardare positivamente al ruolo che ha avuto il Covid-19 nel favorire l’accordo tra Unione Europea e Regno Unito, evitando così il temuto scenario del no deal.