di Tommaso Galeotto

Lo scorso 31 dicembre, con l’emanazione della Legge di bilancio (L. n. 234/2021), il legislatore è intervenuto sulla spinosa questione dei tirocini (articolo 1, comma 720-726) nel tentativo di dare una svolta a un tema che ormai da qualche tempo alimenta il dibattito pubblico per via dell’emorragica diffusione degli stage. Nello specifico, per mezzo della legge finanziaria viene richiesto alla Conferenza Stato-Regioni di definire, entro giugno, delle nuove linee guida per la regolazione dei tirocini extracurriculari, la cui disciplina specifica, trattandosi di formazione professionale, spetta alle singole istituzioni regionali[1]. La legge di bilancio, sul filo del rasoio della legittimità costituzionale[2], non si è tuttavia limitata a sollecitare una riforma, ma si è altresì spinta sino alla proposta di una nuova definizione di tirocinio (comma 720), nonché all’individuazione di alcuni criteri di riforma dell’istituto riguardanti, in particolare, il campo di applicazione dello stesso che dovrebbe riguardare soltanto i “soggetti con difficoltà di inclusione sociale” (comma 721, lettera a).

La portata di questo intervento, che tuttora alimenta incessanti tentativi interpretativi sull’impianto e sulle scelte operate dal legislatore, non può essere compresa nella sua interezza se non si guarda ai numeri degli stage registrati negli ultimi anni. Secondo le più recenti rilevazioni di Anpal[3], tra il 2014 e il 2019 sono stati attivati quasi 2 milioni di tirocini, per oltre mezzo milione di imprese che ne hanno usufruito. Nel 79% dei casi si trattava di tirocini avviati nei confronti di giovani under 30 che, per il 45%, hanno visto in questo strumento una prima via di ingresso nel mondo del lavoro[4]. Guardando invece alla categoria dei tirocinanti, è possibile notare come la stragrande maggioranza degli stage sia stata attivata nei confronti di disoccupati/inoccupati (69,1%) e soltanto per il 17% siano stati rivolti a neo-qualificati/diplomati/laureati/dottorati entro 12 mesi dal conseguimento del titolo. Già questo sembra essere un primo dato che testimonia come, nel corso del tempo, il tirocinio si sia sempre più imposto come una misura “cuscinetto” di politica (semi)attiva per persone in difficoltà ad inserirsi o reinserirsi nel mercato del lavoro, come i disoccupati e gli inoccupati, mettendo in secondo piano la propria vocazione di mezzo utile a favorire la transizione scuola-università-lavoro di giovani appena usciti dal sistema di istruzione e formazione. Tuttavia, la cifra più significativa, non tanto per il peso numerico ma per ciò che potrebbe diventare il tirocinio con i nuovi criteri di applicazione previsti dalla legge di bilancio (comma 721, lettera a), è rappresentata dal numero di stage attivati in favore di persone con difficoltà di inclusione sociale prese in carico dai servizi sociali e/o sanitari, ossia poco più di 60 mila tirocini per circa il 3% del totale. Rimandando a qualche paragrafo più avanti l’approfondimento sul punto, è però già possibile osservare come qualora dovesse divenire questa l’unica categoria di tirocini attivabili (nella legge di bilancio si chiede di riservarli soltanto a soggetti con difficoltà di inclusione sociale, già però disciplinati da alcune linee guida accordate in Conferenza Stato-Regioni nel 2015) si assisterebbe ad un drastico e fulmineo ridimensionamento delle quote degli stage.

Considerato il quadro numerico appena esposto è quindi possibile operare un’analisi di quello che è stato l’intervento della finanziaria per quanto concerne l’impianto definitorio della misura, ma soprattutto la platea dei beneficiari a cui questa si rivolge. Al comma 720 viene infatti proposta una nuova definizione di tirocinio che, seppur nel meritevole tentativo di riportare in auge la dimensione formativo-orientativa, suscita qualche dubbio circa l’utilizzo di alcuni termini. Si legge infatti che il tirocinio sarebbe “un percorso formativo di alternanza tra studio e lavoro, finalizzato all’orientamento e alla formazione professionale, anche per migliorare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro […]”. Occorre innanzitutto notare come questa definizione si aggiunga (sostituisca?) a quella già presente nelle Linee guida del 2017, che definisce invece il tirocinio come “una misura formativa di politica attiva”[5], conferendo quindi una più netta impronta occupazionale allo strumento (come per altro è diventato nella realtà dei fatti). Il carattere lavorativo dello stage viene fortemente diluito nella nuova definizione con la configurazione della misura come mezzo volto a “migliorare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro”, omettendo ogni riferimento esplicito alle politiche attive. La più recente formulazione sembra quindi voler calcare maggiormente la dimensione formativo-orientativa del tirocinio, lasciando tuttavia qualche dubbio circa il senso del riferimento “studio” all’interno del percorso. L’utilizzo di questo termine potrebbe infatti rappresentare una criticità qualora dovesse portare a una situazione in cui i tirocinanti sarebbero chiamati a dover formarsi in modo teorico, a studiare, e non invece a sperimentare una formazione on the job/in situazione, di gran lunga più auspicabile. Qualora dovesse venire annacquata la formazione pratica a favore di un approccio teorico, il rischio sarebbe quello di generare uno sdoppiamento tra l’esperienza svolta sul campo e un’eventuale dimensione di studio, prestando ancora più il fianco all’abuso dello strumento come manovalanza a basso costo.

Seppur l’aspetto definitorio della misura rappresenti un elemento di rilevanza, a quanto previsto dal comma 721, articolo 1, della legge di bilancio, concernente il campo di applicazione dello stage desta maggiori preoccupazioni. Ciò che viene espresso fa infatti riferimento al fatto che i beneficiari dello strumento dovranno essere esclusivamente soggetti con difficoltà di inclusione sociale, aprendo ad almeno due scenari interpretativi circa la perimetrazione di questa categoria di persone.

Nel caso di una interpretazione più restrittiva della dicitura “soggetti con difficoltà di inclusione sociale”, quello più temuto dalle imprese e dalle relative associazioni di categoria, la situazione che ipoteticamente verrebbe a crearsi vedrebbe un radicale restringimento dell’utilizzo dei tirocini soltanto a quelli disciplinati dalle Linee guida del 2015 in favore di persone prese in carico dal servizio sociale professionale e/o dai servizi sanitari competenti finalizzati all’inclusione sociale, all’autonomia e alla riabilitazione. Come già riportato, questi stage rappresentano ad oggi soltanto il 3,1% del totale dei tirocini attivati. Ciò significa che si rischierebbe di passare da un’attivazione di stage dell’ordine di grandezza di milioni ad una di poche decine di migliaia (circa 60 mila), con relativi effetti su un mercato del lavoro che faticherebbe a sopperire con istituti contrattuali l’ingresso di tanti giovani (potenziali tirocinanti) nel mercato del lavoro.

Guardando invece ad uno scenario relativo ad una più ampia ricomprensione di soggetti con difficoltà di inclusione sociale, la tanto acclamata riforma degli stage potrebbe tramutarsi in un fuoco di paglia. In tal senso, lo stesso Ministro del Lavoro Orlando nel corso della sua audizione alla XI Commissione del Senato, facendo riferimento ai beneficiari della misura, è sembrato volersi distaccare da una interpretazione eccessivamente restrittiva di quanto previsto dalla legge di bilancio, affermando che i destinatari dovranno essere coloro “con maggiore distanza dal mercato del lavoro (in questo senso va intesa la dicitura “difficoltà di inclusione sociale”), e cioè con maggior necessità di formazione professionale”. La linea espressa dal Ministro ha quindi lasciato aperta la possibilità di ricomprensione dei giovani, per i quali finora è stato attivato il 79% dei tirocini, tra i soggetti con difficoltà di inclusione sociale, come anche (potenzialmente) dei disoccupati/inoccupati in generale, “in virtù” del loro bisogno di formazione professionale e della loro distanza dal mercato del lavoro. Se così fosse, si rischierebbe però il rovescio della medaglia. In tal senso, vien da sé che continuare a considerare i giovani nell’alveo dei beneficiari significherebbe un nulla di fatto, scalfendo solamente l’impianto attuale della misura, proprio per l’elevato numero di tirocinanti giovani.

In attesa dell’espressione in merito da parte della Conferenza Stato-Regioni, occorre quindi sottolineare il rischio di una eccessiva “volatilità” dell’impianto della riforma espressa dalla legge di bilancio. Seppur sia sotto gli occhi tutti che il tirocinio è uno strumento largamente abusato da molte aziende, il tentativo di risolvere questo problema riservandolo solamente ai “soggetti con difficoltà di inclusione sociale” potrebbe portare più disagi che benefici, sia per il rischio interpretativo (tuttora è mancante un terreno di intendimento comune) sia per il rischio di stigmatizzare il tirocinante come soggetto “escluso dalla società”. Qualora infatti dovesse prevalere la linea dura, è difficile credere che per ogni attuale tirocinante vi sarebbe magicamente l’attivazione di un contratto di apprendistato o di un contratto a tempo determinato/indeterminato, considerato il loro maggior costo rispetto ad uno stage. Tra i rischi potrebbe infatti esservi quello di un allungamento del periodo di transizione scuola-università-lavoro per molti giovani a cui le imprese non sarebbero disposte a offrire istituti contrattuali con maggiori garanzie ma anche più onerosi dal punto di vista del costo del lavoro.

Rinunciando a battaglie ad alto pay off mediatico, si potrebbe intervenire nel contrastare gli abusi lavorando maggiormente sui fianchi della misura, ossia prevedendo limiti di contingentamento e criteri di percentuale di assunzione e conferma più stringenti, così da evitare la parata e il ricambio continuo di tirocinanti senza garantire alcun impegno formativo e prospettiva occupazionale da parte delle aziende. Inoltre, occorrerebbe abbassare il tetto della durata massima dei tirocini (comprensiva di proroghe e rinnovi) per evitare il rischio di perpetuare troppo a lungo un periodo senza retribuzione (il tirocinio, non essendo un contratto di lavoro, presuppone solo un’indennità di poche centinaia di euro) e senza versamento dei contributi. Sul lungo periodo occorre però fare uno sforzo maggiore. La contrattazione collettiva deve giocare un ruolo centrale nella costruzione di convenzioni territoriali per l’attivazione di tirocini (anche curriculari), mettendo al centro le peculiarità formative dei settori e dei territori, alleggerendo così gli sforzi burocratici delle Pmi e tutelando maggiormente i tirocinanti da un punto di vista formativo. Non da ultimo, considerato il record negativo in Europa con cui i giovani italiani transitano dalla conclusione del periodo di studio all’ingresso nel mercato del lavoro, urge investire massicciamente sulle filiere formative e sul dialogo scuola-imprese. In tal senso, occorre mettere in fila un domino virtuoso di tirocini curriculari, cioè quelli svolti durante il percorso di studi per l’accrescimento del bagaglio di competenze prima dell’ingresso ufficiale nel mercato del lavoro, e apprendistato (soprattutto duale), un vero contratto di lavoro con una forte impronta formativa in grado di garantire continuità di carriera e una sana stabilità professionale.

 

[1] Per consultare le diverse legislazioni regionali si veda ‘Parte II. Tipologie di tirocinio a livello nazionale e regionale’

in T. Galeotto, Il tirocinio e le sue molteplici articolazioni nell’incrocio tra definizioni nazionali e regolazioni regionali. Contributo alle ipotesi di riforma tracciate nella legge di bilancio 2022, Materiali di discussione, N° 4/2022, Adapt University Press, 2022.

[2] Già due tentativi di riforma dei tirocini erano stati giudicati come incostituzionali dalla Corte: D.lgs n. 276/2003, art. 60   con la Sentenza n. 50/2005 della Corte costituzionale; l’art. 11 del DL n. 138/2011 con la Sentenza n. 287/2012 della Corte costituzionale.

[3] Anpal, Secondo rapporto di monitoraggio nazionale in materi di tirocini extracurriculari, 2021.

[4] Si veda anche L. Casano, F. Seghezzi (a cura di), Giovani tra mercato e non mercato. Lavoro, competenze e nuove professionalità, Rapporto di ricerca Fondazione Unipolis-Fondazione Adapt, 2021.

[5] La definizione completa presente nelle Linee guida del 2017: “Il tirocinio è una misura formativa di politica attiva, finalizzata a creare un contatto diretto tra un soggetto ospitante e il tirocinante allo scopo di favorirne l’arricchimento del bagaglio di conoscenze, l’acquisizione di competenze professionali e l’inserimento o il reinserimento lavorativo. Il tirocinio consiste in un periodo di orientamento al lavoro e di formazione in una situazione che non si figura come un rapporto di lavoro […]”.