Gianluca Giansante è partner di Comin & Partners, insegna alla Luiss Guido Carli e nei master della Luiss School of Government. In precedenza, è stato responsabile Comunicazione e relazioni digitali della Regione Lazio e ha svolto attività di consulenza per la Presidenza del Consiglio dei ministri. Dottore di ricerca in Linguaggi politici, è autore di diverse pubblicazioni sulla comunicazione e di tre libri su questo tema. Il più recente, scritto con Gianluca Comin, si intitola “Tu puoi cambiare il mondo: la reputazione personale”, è stato pubblicato nel 2021.

Sembra che i media si concentrino su un solo argomento alla volta, creando una narrazione monotematica. Si può dire che costruiscano un’immagine mistificata della realtà, come per esempio all’inizio della pandemia? Qualcosa di simile si vede anche con il flusso continuo di foto, video e notizie dall’Ucraina. Nonostante il grande impatto emotivo iniziale, non si rischia poi di assuefarsi alla violenza e normalizzare il dolore del popolo ucraino?

I temi sono molti, proviamo a delineare alcuni elementi essenziali. Il primo: le caratteristiche della comunicazione tendono necessariamente a fornire un’immagine mediata della realtà, che enfatizza alcune caratteristiche e ne offusca altre. La copertura mediatica in occasione di eventi di portata globale è caratterizzata, in primo luogo, dalla episodicità, ovvero la tendenza a raccontare gli avvenimenti solo nei momenti salienti. La situazione in Ucraina è una vicenda lunga, ma solo nelle ultime settimane è diventata predominante nel racconto dei media. Ciò che emerge, ragionando più in generale, è dunque un’alternanza tra fasi di grande attenzione mediatica e intervalli durante i quali la copertura informativa è più ridotta o addirittura assente. Una seconda caratteristica della comunicazione è la polarizzazione, cioè il bisogno di raccontare necessariamente, all’interno di una vicenda, due voci al di là del loro effettivo valore. Pensiamo ad esempio alla contrapposizione sul tema del vaccino nel periodo più caldo dell’emergenza sanitaria. O ancora, più recentemente, tra opposte posizioni in occasione delle drammatiche vicende che stanno accadendo in Ucraina. Dalla costante polarizzazione dei temi trattati dai media deriva un’inevitabile semplificazione, intesa come riduzione della complessità dei fatti narrati. Riprendendo l’esempio della situazione in Ucraina, il rischio può essere quello di focalizzare l’attenzione non tanto su ciò che avviene nelle zone del conflitto, quanto sulla contrapposizione tra i due punti di vista discordanti. Per quanto riguarda il rischio di assuefazione, non ci sono dubbi che sia presente. Lo descrisse in modo mirabile Ennio Flaiano nel racconto “Un marziano a Roma”, che racconta della venuta sulla Terra di un alieno proveniente da Marte. Dapprima fonte di enorme curiosità, il marziano venne accolto da grandissimi onori e invitato in tutte le occasioni più importanti. Svanito l’interesse iniziale, iniziò a essere ignorato arrivando addirittura a essere sbeffeggiato per le strade dell’Urbe. Questo racconto satirico testimonia come i media possano essere in grado di consumare la realtà. Il racconto mediatico logora inevitabilmente anche i drammi peggiori e l’assuefazione conduce sicuramente a uno dei tanti rischi della guerra: quello di perdere la capacità di provare dolore per ciò che sta accadendo.

La figura del Presidente Zelensky ha catturato l’attenzione degli esperti di comunicazione. Grazie a una serie di scelte precise (il modo di vestire, la scelta delle parole e l’impostazione dei discorsi, l’uso che sta facendo di Instagram e Twitter) sembra stia innovando la comunicazione politica. Cosa ne pensa della strategia del Presidente ucraino? È un innovatore o ha saputo sfruttare a proprio vantaggio dinamiche espressive già presenti?

Credo che il momento di passaggio che ha delineato il modo attuale di percepire la figura Zelensky sia stato quando, di fronte alla proposta americana di trovare un rifugio all’estero dal quale poter guidare il Paese in sicurezza, lui ha risposto che sarebbe rimasto sul suolo ucraino. La frase utilizzata per declinare l’offerta degli Stati Uniti, più volte riportata sui media, ha assunto un valore iconico: “Non ho bisogno di un passaggio, ma di munizioni”. In quel momento, molto delicato per il suo Paese, ha lanciato un messaggio forte al suo popolo, scegliendo non di avere un vantaggio per sé, ma di vivere e affrontare il conflitto proprio come lo stavano facendo i suoi cittadini. La scelta di abbandonare la giacca e la cravatta, indossando l’uniforme militare come i soldati che stavano difendendo il Paese, risponde allo stesso bisogno: quello di dire ai cittadini e all’esercito che guidava: “Sono uno di voi”. Questo è un elemento essenziale della leadership e della comunicazione efficace. Naturalmente le strategie comunicative che abbiamo appena visto non sono state inventate da Zelensky. Sono parte di una tradizione della comunicazione politica e militare di cui troviamo esempi già nell’antica Grecia, in Persia e nella Roma imperiale. Testimonianze di questo atteggiamento si ritrovano, per esempio, non solo nella Ciropedia di Senofonte che racconta l’educazione di Ciro il Grande, fondatore dell’impero persiano, ma anche in tutte le biografie dei più grandi imperatori romani, a partire da Giulio Cesare.

Nella comunicazione dei leader politici sembrano esserci due spinte diverse: da una parte una promozione più vicina al marketing, dall’altra la scelta di una comunicazione più sobria. Quali sono gli esempi più interessanti in Italia di comunicazione istituzionale “riuscita” e perché?

I fattori in campo per analizzare una comunicazione efficace sono tanti: la scelta delle parole, le immagini, lo stile, gli strumenti utilizzati. Non c’è una ricetta unica. L’efficacia comunicativa è sempre legata a un preciso contesto storico, politico e istituzionale, a una specifica figura politica, al posizionamento scelto. Potremmo elencare tanti leader efficaci nella storia repubblicana italiana. Credo sia utile qui citare due esempi, che oggi stanno affrontando l’inedita situazione storica che stiamo vivendo. Il primo è Sergio Mattarella, che è stato capace di essere un punto di riferimento e una guida, anche attraverso la comunicazione, fin dai primi giorni della pandemia e ancora oggi di fronte agli avvenimenti internazionali che si susseguono. Il secondo è Mario Draghi, che con sobrietà sta interpretando un ruolo altrettanto difficile e che ha saputo dosare parole e silenzi per fornire una guida a un paese – e a una maggioranza – che rappresenta anime politiche molto diverse.

Il suo ultimo libro, Tu puoi cambiare il mondo, scritto insieme a Gianluca Comin, si concentra molto sul valore della reputazione personale e su come costruirla partendo anche dai gesti che si fanno e dalle parole che si usano. Questo vale anche per le istituzioni? Che rapporto c’è tra scelta delle parole e la rappresentazione delle figure istituzionali?

Nella storia democratica, le parole, i gesti e i simboli sono lo strumento più efficace che i rappresentanti delle istituzioni hanno per costruire consenso rispetto alle soluzioni che intendono promuovere e alla complessità dei problemi che affrontano. Aggiungerei un elemento: quando si parla di comunicazione, troppo spesso si pensa alle parole e si dimentica l’ascolto. La capacità di ascoltare è tanto importante quanto la capacità di produrre gesti simbolici e parole. Le istituzioni che comunicano in maniera più efficace sono proprio quelle che si dimostrano in grado di ascoltare, e non solo di parlare.

Lo scenario mondiale diventa ogni giorno più complesso e anche le figure istituzionali sembrano prendere parte a un gioco dominato da visioni polarizzate e interessi personali. I fatti vengono usati per dire tutto e il contrario di tutto. Chi si occupa di comunicazione, e quindi è un/a professionista dell’informazione, che ruolo ha oggi? C’è ancora lo spazio per il commento, la riflessione e l’approfondimento, per una comunicazione orientata alla comprensione e al discernimento del mondo?

Anche qui emergono tante sollecitazioni, proviamo a raccogliere alcuni stimoli. Il primo: la costante necessità dei media di produrre informazioni genera un rischio abbastanza diffuso: l’opinionismo. Con ciò si intende il bisogno di raccogliere opinioni anche se sono espresse da persone che non hanno l’esperienza e la conoscenza necessaria per farlo. Io credo che sia necessario innanzitutto rivalutare anche la necessità di non esporsi su temi che non si conoscono. Riscoprire la capacità, in alcune situazioni, di dire: “Non lo so, è un tema che non conosco”. L’altro rischio è quello di dare per vere interpretazioni della realtà che sono finalizzate a promuovere una visione di parte. Durante questa guerra stiamo vedendo al lavoro diversi attori che utilizzano la comunicazione come strumento bellico, finalizzato a costruire o distruggere la reputazione delle parti in campo e a far crescere o far diminuire l’entusiasmo e la partecipazione delle popolazioni nei Paesi coinvolti. È quella che in ambito militare si chiama “Stratcom”: conoscerla e riconoscerla è un elemento essenziale per leggere la realtà in questo periodo. Il compito di chi si occupa di comunicazione, di giornalismo, di informazione è sempre più quello di provare a rendere un servizio ai propri lettori, ai propri ascoltatori, ai propri studenti, basato sulla capacità di comprensione, di analisi e di racconto. Ne vediamo tanti esempi positivi e pregevoli ogni giorno, e questo ci conforta.