di Cesare Morgante, giovane medico
 
In Italia dall’inizio della pandemia sono morti, a causa del Covid, oltre 255 medici. Molti di loro si trovavano in prima linea per contrastare l’emergenza. Li abbiamo definiti eroi, sono stati lodati e applauditi dai balconi, grazie a loro sono affiorate le eccellenze e alcuni dei punti di forza del nostro sistema sanitario. Ma la pressione a cui il sistema è stato sottoposto dalla pandemia ne ha esaltato anche le debolezze e le fragilità.
 
È rimasta impressa nella memoria di tutti la foto dell’infermiera stremata, addormentata sulla tastiera, che, insieme ad altre migliaia di professionisti del SSN (Servizio Sanitario Nazionale), è stata sottoposto a sforzi al limite dell’umano. Un articolo pubblicato nel marzo 2020 su Il Sole 24 Ore evidenziava come l’acquisto di cinquemila ventilatori, utili a potenziare le terapie intensive per gli ammalati di Covid, fosse inutile senza la disponibilità di medici capaci di utilizzarli.
 
Sembra paradossale, ma solo in questa settimana gli oltre 24.000 medici con il “camice appeso”: medici, per lo più neolaureati hanno conosciuto i risultati del concorso di specializzazione svoltosi lo scorso settembre. Ed è ancora più illogico pensare che solo poco più della metà di loro abbia ottenuto una borsa di specializzazione per perfezionare la propria formazione e per prestare servizio in corsia. Gli altri, invece, rimarranno in un limbo in attesa del prossimo concorso e di questi una parte non insignificante preferirà andare all’estero per non continuare ad attendere invano.
 
L’attuale modalità di ammissione alle scuole di specializzazione consiste in un esame che viene svolto in contemporanea in più parti d’Italia. Una volta conosciuta la propria posizione in graduatoria, l’aspirante specializzando deve inserire tutte le combinazioni a cui è interessato tra branca e sede, per esempio Cardiologia a Catanzaro, Cardiologia a Pescara, Oftalmologia a Bari e così via. A quel punto un sistema informatico assegnerà il candidato alla prima opzione disponibile. Nel caso in cui le persone che occupano una migliore posizione in graduatoria abbiano già scelto tutte le borse di studio fra quelle selezionate dal candidato, quest’ultimo rimane senza una borsa di specializzazione.
 
In tutto questo c’è un però che non si può non considerare. Per come è stato congegnato il sistema di assegnazione, i partecipanti sono costretti ad inserire centinaia di combinazioni per aumentare la propria probabilità di ottenere un posto, selezionando anche branche per cui non si ha particolare affinità. Questo processo fa sì che ogni anno vi siano specializzandi che partecipano nuovamente al concorso sperando di ottenere una borsa “migliore”, più consona alle loro aspirazioni. Tutto ciò determina la perdita di borse e la carenza di specialisti in determinate branche della medicina. Ci sembra opportuno quindi prevedere un sistema di recupero delle borse perse e di incentivi, anche di natura economica, per quelle meno richieste.
 
Questa situazione, in cui vi sono più laureati in medicina che borse di specializzazione, viene chiamata “imbuto formativo”. L’osservatorio CPI (Conti Pubblici Italiani) dell’Università Cattolica nel luglio del 2019 stimava che per questi “camici sospesi” lo Stato aveva investito oltre 300 milioni, una cifra, come indicato nello stesso report, destinata a salire nei prossimi anni. È dunque a partire da un “principio di realtà” che auspichiamo un intervento normativo capace di prevedere un rapporto tra laureati in medicina e borse di specializzazione pari a uno.
 
In questi giorni sono state evidenziate anche ulteriori criticità sulla figura del medico specializzando: il trattamento economico mensile riconosciutogli è tra i più bassi in Europa, equivale a poco più di 1800 euro lordi a cui vanno sottratte le tasse universitarie (che in alcuni atenei possono raggiungere cifre superiori a 3000 euro), i contributi Enpam (l’ente di previdenza dei medici) e le tasse d’iscrizione all’ordine. In Francia, invece, uno specializzando guadagna quasi il doppio e in Germania quasi tre volte di più. Per arginare la fuga di cervelli bisognerebbe aumentare il trattamento economico degli specializzandi ed eliminare le tasse d’iscrizione o, per lo meno, equipararle tra i diversi atenei. Un report della Corte dei Conti dello scorso maggio stimava che, negli ultimi 8 anni, oltre 9.000 medici hanno abbandonato l’Italia per cercare condizioni lavorative e retribuzioni migliori. Le mete più ambite sono il Regno Unito, la Germania, la Svizzera e la Francia.
 
Inoltre, a tutto questo si aggiunge un’altra criticità: l’incompatibilità dello specializzando con attività di libero professionista e dottorati di ricerca. Tale situazione ha costretto molti medici, in attesa di entrare alla scuola di specializzazione, ad abbandonare incarichi che li vedevano impegnati in prima linea nel fronteggiare l’emergenza Covid, causando una grande difficoltà nei territori a garantire un contrasto efficace della pandemia. Vista la legislazione vigente e a causa del turnover lavorativo si prevede una carenza di specialisti superiore a 15.000 unità. Inoltre, considerato che per la formazione di ciascun medico lo Stato ha investito oltre 300.000 euro, diventa evidente che sia necessaria una riforma del sistema di ammissione alle scuole di specializzazione e un miglioramento generale delle condizioni lavorative dei medici in Italia.
 
Stiamo parlando, non dimentichiamolo, di almeno una parte della futura classe dirigente del Paese in un settore, quello sanitario, nevralgico per l’intera comunità. Le riforme necessarie per poter utilizzare al meglio le risorse europee, stanziate attraverso il Recovery Fund, sono più di una speranza per far sì che l’Italia riesca a ridisegnare un sistema idoneo a tutelare la salute dei cittadini italiani.