di Ciro Cafiero
 
Per circa vent’anni abbiamo sperato nella parola “glocal”, l’intreccio fecondo tra la dimensione “globale”, con i suoi ampi orizzonti, e quella del “locale”, fatta di identità, territori e culture particolari. La pandemia ha messo a nudo un mondo globale che si è dimenticato di valorizzare e far crescere il locale. La storia recente è nota: sono bastati pochi mesi di lockdown per mettere in crisi il commercio internazionale, creando un gioco a somma zero sia per i Paesi non autosufficienti sia per le più ricche nazioni esportatrici.
 
Secondo il sociologo Charles Perrow eventi come quello del Covid sono normal accident. Prepararsi ad affrontarli significa creare un’alternativa a un modello di sviluppo governato dalla globalizzazione, ormai giunta al suo tramonto. Una strada possibile e alternativa è quella della localizzazione dell’economia: già nel 2015, Adjiedj Bakas sottolineava l’importanza dell’emergente slowbalisation.
 
Almeno tre sono i benefici di questa scelta per il nostro Paese. Anzitutto ripopolare la desertificazione del Sud Italia creata dalle emigrazioni giovanili di massa. Per volerlo basta poco: occorrere rilanciare i consumi di aree oggi depresse, dai beni di uso ordinario agli investimenti immobiliari. La “potenza” inespressa del Sud potrebbe diventare “atto” attraverso scelte politiche e sociali condivise e unitarie. Secondo il recente rapporto Svimez, 45 mila giovani sono già tornati a casa ma l’asticella potrebbe toccare quota 100 mila in poco tempo. Questo fenomeno, chiamato south working, è reso possibile dal lavoro da remoto. Inoltre, la Coldiretti stima che gli investimenti green possono creare, anche nel Meridione, un milione di posti di lavoro.
 
Il lavoro nella “propria terra” ha una radice biblica, richiama la “con-creazione” del progetto divino che presuppone l’umana cura del creato. Un’economia localizzata (non localistica) responsabilizza le persone che si sentono in debito verso il proprio territorio in cui vivono il lavoro, la vita affettiva e relazionale. La stessa origine dell’uomo, secondo l’antropologia biblica, affonda le radici nella terra. Umano infatti deriva da humus, la terra, dalla cui polvere è stato creato l’uomo con l’alito della Vita, in ebraico il nismat hayyim. Così ritornare e curare la terra significa curare sé stessi. Il libro della Genesi lo ricorda così: «Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai!» (Gn. 3,19). Il primo lavoro nella tradizione cristiana è l’agricoltura nel giardino di Eden, adamah, infatti rimanda ad adam: in ebraico, uomo.
 
Ma c’è di più, la localizzazione dell’economia genera maggiore responsabilità sociale dell’impresa verso il territorio. Questo non solo ospita gli insediamenti produttivi ma è, in parte, anche il luogo del consumo e del mercato. Secondo il disegno dell’articolo 41 della Costituzione, il limite dell’utilità sociale si bilancia con la libertà d’iniziativa economica. È da questa mirabile intuizione che sono possibili progetti di valorizzazione ambientale e della manodopera locale, di tutela delle persone in situazione di disagio. Un nuovo paradigma di welfare per cui il benessere dell’impresa passa non solo dal benessere dei luoghi aziendali, ma anche da quello dei territori e delle persone che li abitano. 
 
Così facendo verranno meno le situazioni di conflitto tra diritto alla salute e diritto al lavoro, come è tragicamente accaduto all’Ilva di Taranto. La stessa Corte Costituzionale, con la sentenza n. 85 del 2013, ha detto che i diritti di rango primario meritano contemperamento e mai la prevalenza di uno a discapito dell’altro. Infine, economie localizzate generano comunità, perché cittadini, lavoratori e imprese perseguono obiettivi comuni, legati al territorio. Un esempio sono le Fondazioni di Comunità che in questi ultimi 20 anni hanno aiutato molti territori a crescere. Queste sono enti non profit con una sensibilità filantropica basata sulla solidarietà e sulla cultura del dono. Agiscono come intermediari finanziari, aiutando i donatori a convogliare il proprio denaro in opere concrete al servizio del territorio.
 
Occorre favorire una spinta politica in cui locale e globale possano fondare una nuova alleanza attraverso il significato di tre termini: “comunità”, “economia civile” e “territorio”. Solo così il sospetto e le divisioni potranno lasciare spazio alla fiducia e all’inclusione di cui parla l’enciclica Fratelli Tutti. Creare sviluppo nel rispetto dei luoghi e delle persone è stato lo spirito che ha animato anche Adriano Olivetti, per il quale ogni territorio deve innervarsi di “operatori di comunità”. Il fine ultimo della comunità è quello di unire l’incluso omogeneo con l’escluso eterogeneo.
 
Questo nuovo scenario che si sta silenziosamente ricomponendo richiama noi tutti alla responsabilità di cogliere le occasioni che offre. Basta lasciarsi provocare dalla crisi innescata dalla pandemia per guardare con spirito nuovo al locale. La logica della sussidiarietà può salvare il nostro futuro dal collasso, perché come insegna Hannah Arendt, «ogni crisi è un invito alla libertà». Rimane poco tempo. Il monito antico è tutt’ora valido: «salva ciò che ami». La stessa motivazione che, tutti i giorni, muove ogni padre e madre di buona volontà.