La Redazione ha chiesto al prof. Francesco Clementi, ordinario di Diritto pubblico comparato alla Università di Roma “Sapienza”, un commento a tutto tondo sulla situazione politica negli Stati Uniti, che pubblichiamo ringraziandolo ancora per la disponibilità.

La sfida del presidente Biden, a maggior ragione dopo il discorso sullo “stato dell’Unione”, presenta prospettive nuove e, per certi aspetti, inedite dentro la tradizione costituzionale americana.

Innanzitutto perché, dopo tre anni di governo, Biden ha smentito ogni pronostico.
Infatti, nonostante nel 2020 la sua candidatura fosse stata voluta più per compattare il proprio partito e per aprire in fondo ad un’altra candidatura (ossia quella della sua attuale vice Kamala Harris) che una scommessa sulla sua figura, nei fatti invece oggi la sua elezione si è confermata come la scelta più giusta per un Paese fragile, inquieto e diviso come sono gli Stati Uniti, a maggior ragione dopo i fatti di Capitol Hill del 6 gennaio 2021.

Pertanto, superando lo scetticismo di chi nella politica e nei media non pensava che potesse vincere nemmeno la nomination, Biden non soltanto ha evidenziato contro molti pronostici una singolare capacità di vincere la presidenza ma, dopo tre anni appunto, ha dimostrato pure di sapere come poter rimettere in moto un processo politico migliore rispetto a quello vissuto sotto la presidenza Trump, anche riguardo al versante dei repubblicani. E di saper come rilanciare economicamente quella società, tenendola più unita.

La presidenza di Joe Biden è stata caratterizzata da una riparazione dei danni causati dalla precedente amministrazione di Trump e da una forte attenzione alla lotta contro la pandemia di COVID-19 rispetto alla quale Biden ha iniziato il suo mandato proprio con una serie di ordini esecutivi volti a combatterla, lanciando una massiccia campagna di vaccinazione per proteggere i cittadini americani.

La sua Amministrazione ha lavorato inoltre per promuovere la giustizia razziale, il cambiamento climatico e l’uguaglianza di genere, ritirando pure le truppe americane dall’Afghanistan e ponendo così fine alla guerra più lunga della storia degli Stati Uniti.

Tuttavia, la presidenza di Biden non è stata priva di sfide: al di là dell’opposizione repubblicana a molte delle sue politiche, la mancata risoluzione della crisi migratoria lungo il confine meridionale degli Stati Uniti è ancora una questione difficile per l’amministrazione Biden.
In ogni modo, proprio l’andamento di questi anni – compreso un risultato nelle elezioni di mid-term non così negativo come è invece tradizione da molti decenni ormai per il presidente in carica – ha mostrato crescentemente come la cifra della sua presidenza sia l’abilità di rafforzare gli elementi di unità rispetto a quelli di differenza, riducendo gli spazi della polarizzazione estremista: con un Congresso degli Stati Uniti, prima che una Presidenza, più produttivo e addirittura più disponibile in modo bipartisan ad approvare provvedimenti comuni rispetto alla precedente esperienza di Trump.

Non mancano naturalmente le differenze, e non da poco, anche grazie ad una Corte Suprema molto polarizzata e radicale. E tuttavia il saldo si può dire di certo, al momento, positivo.

Su questa base, sta emergendo sempre più allora l’elemento chiave del politico Joe Biden, ossia il fatto che quella che in tanti hanno ritenuto la sua più grande vulnerabilità politica – la sua anzianità, essendo il Presidente degli Stati Uniti più anziano di sempre – è in realtà invece oggi la sua maggiore forza.

Questo ottantenne infatti – come quella generazione di anziani, da Franklin Delano Roosevelt a Winston Churchill, oppure da Clement Attlee, a Jean Monnet, a Konrad Adenauer ed Alcide De Gasperi che hanno ricostruito l’Europa dopo i catastrofici anni ’30 e ’40 – sta dimostrando un’abilità politica sorprendente in tempi così complessi, assai simile ad esempio a quella che allora ebbe il Presidente Napolitano e oggi vieppiù lo stesso Presidente Mattarella nel governare le crisi che il nostro Paese ha attraversato negli ultimi vent’anni (senza parlare poi di Papa Francesco).

Le ragioni della forza della leadership di Biden ruotano allora attorno a due elementi chiave: la sua esperienza e la sua capacità di essere resiliente.

La sua esperienza politica, oltre che di vita, gli ha dato infatti quella visione e quel “tocco” per cogliere gli elementi essenziali delle questioni, potendo così concentrarsi sul quadro generale e così delegare con intelligenza ed acume il resto ai collaboratori.
Perciò, anche se Biden è il Presidente dell’ordinamento che, con maggiore forza ed applicazione rispetto agli altri Paesi del mondo, ha guidato e sta attraversando i due decenni per intensità più sbalorditivi riguardo ai cambiamenti tecnologici innanzitutto in merito all’intelligenza artificiale, ciò di per sé non lo rende automaticamente “superato”, antico, obsoleto: tutt’altro.
Al contrario infatti, proprio di fronte a quel suo andare incerto, ad un parlare talvolta condito da gaffes e da una memoria che non gli lesina qualche cilecca, il presidente Joe Biden si sta dimostrando invece esattamente quello che ci vuole in questo momento storico, rappresentando quel bastione di stabilità sul quale gli americani – ed il mondo intero – contano per poter suturare le ferite della transizione che ci ha portato il nuovo millennio, ricostruire il senso di comunità e le rispettive connessioni sociali, far rinascere le liberaldemocrazie; portando il mondo insomma dentro una nuova fase, senza perdere le acquisizioni migliori, così definitivamente superando pure quegli istinti di un “passato che non vuol passare”, a partire da un imperialismo russo fuori dalla storia di cui la guerra di aggressione dell’Ucraina è il massimo e più drammatico esempio.

Ecco allora che, dentro questa abilità, vi è una chiara resilienza, ossia l’abitudine a considerare e a ricercare sempre e comunque, nell’affrontare il governo dei problemi e degli eventi che questo tempo pone di fronte ad una figura come il presidente degli Stati Uniti, i fili di una continuità, tra memoria e futuro, tra esperienza e scelte, che consente a questa leadership di rigenerarsi continuamente; dimostrando che anche la sua ricandidatura, in fondo, ha più forza che debolezza. Una resilienza che è capacità di affrontare e superare ogni evento ed ogni difficoltà con consapevolezza ed un atteggiamento di buon senso.

Dal punto di vista politico, evidentemente, rimangono aperti nodi importanti, ne indico tre.

Il primo nodo riguarda la questione giustizia, e quindi il rapporto tra il Presidente e la Corte Suprema. La Corte Suprema, dopo le nomine di Trump, continua a essere una Corte Suprema estremamente conservatrice, in cui lo stesso presidente della corte, il moderato John Roberts, è andato in minoranza. Per esempio, è andato in minoranza come opinione dissenziente nella sentenza principale, che ha fatto la storia di questi ultimi anni, che è la sentenza Dobbs sull’aborto. Per cui la linea di moderazione che il presidente ha espresso, pur condividendo la scelta di defederalizzare un diritto all’aborto, lascia, a maggior ragione, questa corte estremamente polarizzata.
Questo apre uno scenario comunque conflittuale per il prossimo presidente. Se sarà Donald Trump cercherà di approfittarne, se sarà fortunato, per nominare altri giudici – e lui è abbastanza fortunato, perché ne ha nominati tre in un mandato di quattro anni. Se, invece, sarà Joe Biden, il tentativo sarà quello di contemperare le esigenze di un modello di sviluppo progressivo sociale che debba trovare in questa corte forme di dialogo molto maggiori rispetto a quelle che ci sono ora.

Certo, secondo elemento, c’è comunque l’aumento della polarizzazione sociale. Perché questo diritto degradato è l’epitome di una serie di diritti che sono stati messi in discussione, e che sono in discussione, negli Stati Uniti e che stanno, ancora una volta, divaricando quello che noi conosciamo bene, che è la fluttuazione del tema dei diritti tra un modello federale e un modello confederale, in cui, naturalmente, il modello conservatore gioca sulla dinamica confederale e il modello progressista gioca su quella federale.

Terzo elemento: il tema di che cosa faranno e di che fine faranno i partiti politici americani perché non sembrano emergere nuove leadership tali da essere coesive tanto quanto lo sono, al momento, questi due anziani signori, maschi, bianchi, che hanno tutti più o meno studiato nell’est del paese, quando invece il paese è giovane, di colore, che parla molto meno l’inglese di quanto si creda e, naturalmente, vive in realtà territoriali che guardano più al sud del paese che all’est o all’ovest. In altre parole, sono lontani dalle coste e sempre più vicini alle dinamiche di un’America rurale.

A maggior ragione allora l’anzianità di Biden non potrà non pesare sul futuro della presidenza degli Stati Uniti: per le domande che ciò pone – dagli effetti dell’età, ai rischi di uno sbandamento dell’amministrazione prima che ai costi di una “transizione” presidenziale in corsa, laddove fosse impedito nelle sue funzioni – così come, del pari, per il naturale ricarico di responsabilità che vi è nella scelta della candidatura alla vicepresidenza – che peraltro Biden ha già confermato nella persona della sua attuale vicepresidente, Kamala Harris – perché nei fatti, vista l’età di Biden, in essa alberga più di un semplice potenziale sostituto.

Eppure, è proprio in quel suo essere bastione di stabilità, che è la somma della sua esperienza e dalla sua capacità di resilienza, che Biden può trovare quel biglietto da visita per convincere gli elettori nelle presidenziali del 2024, essendo il messaggio in sé molto chiaro, ossia fidarsi di lui. Punto: una richiesta schietta ma non ipocrita, che poi è la stessa richiesta che Biden ha fatto agli elettori durante le elezioni del 2020, dimostrando loro che non li avrebbe delusi. E ha funzionato.
Se allora Joe Biden avrà di nuovo ragione nelle prossime presidenziali del 2024, e se riuscirà a governare fino al 2028 (non da ultimo grazie ai progressi della scienza medica, che potrebbero evitargli di soffrire di una grave malattia in carica), avrà dimostrato che il problema di come procedere costituzionalmente nel caso in cui il presidente non fosse in grado di svolgere il proprio mandato – questione avanzata anche durante la Convenzione costituzionale del 1787 dal delegato John Dickinson e che non ha mai avuto una risposta precisa, nemmeno dopo l’approvazione del 25° emendamento del 1967 – in realtà è una questione legata al tempo storico di ciascuna fase e alla leadership che viene ad incarnare in quel momento.

Se la figura di Biden sarà infatti comunque vissuta, anche di fronte un candidato molto più giovane al posto di Trump, come una figura saggia, vitale e capace nel gestire, in una posizione di potere e responsabilità, le sfide di questo tempo, gli Stati Uniti si abitueranno allora anche al disagio, alle incertezze e agli infortuni dell’età, ritenendoli comunque minori rispetto alla fortuna di avere un Presidente di quel tipo.

In fondo – se si vuole, guardandola da un altro punto di vista – non è in sé una grande novità la sfida che ha di fronte Joe Biden: perché anche papa Francesco, mostrando il suo corpo e la sua malattia, come all’epoca fece Giovanni Paolo II, non fa altro che affermare la sua forza: la quale, fin quando è possibile anche grazie ai progressi della scienza, può prescindere dallo stato più o meno tonico del suo corpo.

D’altronde, se la leadership è vitale, l’essenziale – come dire – c’è.