Il testo è l’intervento di Paolo Gentiloni, commissario europeo per gli affari economici e monetari nella Commissione von der Leyen, che ha tenuto al corso di formazione politica #FormPol di Comunità di Connessioni, in data 6 maggio 2023.

La redazione ha scelto di trascrivere fedelmente il testo per mantenere il più possibile lo spirito e il clima del momento vissuto insieme al Commissario europeo.

Oggi parlerò di Europa, che è attualmente il mio lavoro. L’Europa nasce da un incrocio tra la cristianità e Roma, aldilà delle discussioni che sono state fatte dieci o vent’anni fa sull’inserire o meno le radici cristiane nei trattati europei. Quella era una discussione forse un po’ troppo politica, ma, dal punto di vista storico e culturale, l’Europa nasce qui, dall’incrocio tra la cristianità e la civiltà romana. Io appartengo a una generazione privilegiata, come pochissimi in questo luogo, che dell’Europa ha vissuto tutti i meravigliosi vantaggi, perché in fondo abbiamo avuto settant’anni di sviluppo di prosperità, di mancanza di guerra, di possibilità e di conoscere. L’Europa è stata tutto questo per la generazione di quelli che si avvicinano ai settant’anni e per i quali la loro vita coincide con il percorso europeo. Tuttavia, questa Europa è un concetto ed è una realtà molto dinamica. L’unica cosa che non ci possiamo permettere è di considerare l’Europa come un dato di fatto, come qualcosa che è lì e ha le sue regole e che dobbiamo semplicemente sostenere. No, il senso dell’Europa è quello di essere una realtà dinamica, che può andare avanti o può andare indietro. Un Paese importante come il nostro, terza economia e terzo Paese per popolazione, deve contribuire alla direzione di marcia dell’Unione europea. Non può soltanto comportarsi bene a una tavola che è già apparecchiata, deve indicare e contribuire ad indicare una direzione.

Abbiamo avuto il tempo di un “europeismo eroico”, l’europeismo degli inizi, quello di Spinelli che nel carcere a Ventotene aveva l’orizzonte europeo. E anche l’europeismo eroico di alcuni uomini di stato italiani. Mi sono segnato una citazione molto nota di Alcide De Gasperi che, in un discorso al Senato nel 1950, dice: “Qualcuno ha detto che la Federazione europea è un mito. È vero. È un mito nel senso soreliano. E se volete che un mito ci sia ditemi quale mito dobbiamo dare alla nostra gioventù per quanto riguarda i rapporti tra Stati, l’avvenire dell’Europa e l’avvenire del mondo, la sicurezza, la pace se non questo sforzo verso l’Unione. Volete il mito della dittatura? Il mito della forza? Il mito della propria bandiera, sia pure accompagnata dall’eroismo? Ma noi allora creeremo di nuovo quel conflitto che porta fatalmente alla guerra. Io vi dico che questo mito europeo è il mito della pace”.

Parlava De Gasperi della Federazione, prima ancora che nascesse il percorso dei trattati di Roma e di tante cose. Abbiamo avuto poi un lungo periodo che potremmo dire di un “europeismo statico”: l’Europa come dato di fatto. C’è un mondo diviso in blocchi e del blocco occidentale fa parte una comunità europea che è prevalentemente una comunità di condivisione e di mercato, di regole positive sul commercio che consentono di andare avanti dal punto di vista economico. Circa trent’anni fa, quando è crollato l’impero sovietico, è cambiato tutto. Da quel momento l’Unione europea ha fatto un salto di qualità, è diventata di nuovo un progetto politico di enorme ambizione ma di europeismo dinamico, in cui un progetto può andare avanti ma può anche ritornare indietro, in cui la sfida è continua. Se uno crede in questo mito, se ne vede i vantaggi e le opportunità, viaggiando, incontrando, non lo può considerare come un dato di fatto che esiste e a cui bisogna solo partecipare. Lo deve considerare come un orizzonte, ossia il “giardino” di cui parlava prima padre Occhetta, citando David Sassoli.

La più abusata delle citazioni in tutti i discorsi che facciamo in Europa è la frase di Jean Monnet che diceva che l’Europa crescerà forgiata dalle sue crisi. È vero? Non è sempre vero. Noi, sia la mia generazione che le vostre, abbiamo vissuto un periodo, il decennio scorso, in cui questa crescita attraverso le crisi dell’Unione europea non si è manifestata. Abbiamo avuto negli anni Dieci, un incrocio, una specie di tempesta perfetta, tra la crisi bancaria e poi finanziaria, la crisi dell’euro, la Grecia, poi Brexit e le migrazioni. Il periodo 2015-2016 in cui non siamo riusciti a livello europeo a dare una risposta ai flussi migratori di dimensioni incomparabili rispetto a quelli che stiamo vivendo in questi mesi e negli ultimi anni. L’Europa è molto cresciuta attraverso queste crisi? Forse ha imparato delle lezioni. Qualcuno dice che senza gli inglesi c’è una maggiore compattezza, ma è tutto da vedere, perché le differenze sono importanti. Credo che questo concetto di Jean Monnet, l’Europa cresce attraverso le crisi, sia invece stato vero nel decennio successivo, almeno in questi ultimi tre anni: penso che l’Unione europea sia cresciuta attraverso le crisi degli ultimi due o tre anni. È cresciuta innanzitutto nella sfida della pandemia. Adesso ci sembra scontato, abbiamo tutti il certificato vaccinale. Ma pensate a cosa sarebbe stata la situazione in Europa se l’Unione europea non fosse riuscita nell’operazione di un procurement comune di vaccini, se ci fosse stata competizione tra i diversi Paesi per accaparrarsi vaccini, se ci fossero stati Paesi pieni di vaccini e Paesi senza vaccini: sarebbe stato un fattore di disgregazione e tensione. E al tempo stesso pensate sul piano economico a quanto le differenze che esistono nell’Unione europea tra Paesi con maggiore spazio di bilancio, Paesi più ricchi e altri, si sarebbero accentuate e sarebbero esplose se non ci fosse stato il programma di investimenti comuni, di debito comune, che abbiamo realizzato, prima con un meccanismo di appoggio ai sistemi di cassa integrazione, che si chiamava Sure, e poi con il programma che adesso chiamiamo PNRR. Una cosa enorme per l’Unione europea, vissuta come una svolta epocale. E in effetti mettere in comune il debito per obiettivi comuni è stata una cosa straordinaria. Tutto questo ci ha portato a una buona ripresa economica. L’Unione europea ha raggiunto i livelli pre-pandemia prima di altri grandi attori globali e ha avuto nel 2022 una crescita maggiore di altri grandi attori globali. Io non avrei mai pensato nella mia vita che l’Unione europea, e anche l’Italia, avessero una crescita più alta della Cina o almeno non negli ultimi 30-40 anni. Ma questo è accaduto nel 2022, in parte anche perché così tante risorse, che veniva dal debito emesso in comune, hanno rassicurato i mercati e hanno cominciato a produrre qualche frutto nei Paesi.

Abbiamo avuto però subito dopo un secondo cigno nero, l’invasione russa dell’Ucraina con le sue conseguenze, sia sul piano energetico che sul piano economico. Di nuovo, la mia generazione ha conosciuto l’inflazione, molti dei presenti non sanno cosa sia l’inflazione; l’inflazione alta, quella che incideva pesantemente sui mutui, sulla capacità d’acquisto delle famiglie, che cambiava il modo di vivere e lo cambiava soprattutto a svantaggio delle persone con redditi meno alti. C’era una certa indicizzazione all’epoca, cioè un collegamento tra salari e pensioni e inflazione ma a macchia di leopardo, e oggi anche questo è stato uno dei frutti dell’invasione russa. E tuttavia, ma qui ovviamente siamo dentro una discussione attuale aperta, penso che l’Unione europea abbia reagito bene; dal mio punto di vista in un modo abbastanza impressionante. Io ero Ministro degli esteri nei mesi successivi all’annessione russa della Crimea e ricordo onestamente un balbettio europeo: tentativi di mettere insieme dei piccoli pacchetti di sanzioni che in fondo erano solo dei listing di singole persone. Ma anche attorno a questi tentativi una grande difficoltà.

Qui abbiamo avuto una risposta formidabile: la scelta di non intervenire nella guerra ma di sostenere il Paese aggredito. Questa è la discriminante fondamentale, poi può anche esserci una terza scelta che è quella di girarsi dall’altra parte ma, esclusa questa ipotesi, tu avevi solo un’alternativa: o partecipare al conflitto, che sarebbe stato irresponsabile e con conseguenze probabilmente drammatiche, oppure sostenere il Paese aggredito. E io penso che l’Unione europea sia cresciuta in questo sostegno, molto cresciuta. E che in fondo Putin pensava di dividerla, ma non l’ha divisa. Guardate che il sogno dell’Unione europea in questi paesi è straordinario. Prima parlavamo di Spinelli e del carcere di Ventotene, questi hanno il sogno dell’Unione europea sotto i bombardamenti. Noi del collegio dei commissari siamo stati a Kiev, a incontrare il governo ucraino due o tre mesi fa e la cosa che mi ha impressionato è che siamo stati sette ore a discutere con i ministri ucraini. Per sette ore abbiamo discusso dei vari capitoli del percorso di accesso dell’Ucraina all’Unione europea e della custom union. Questo è il mito, per usare le parole di De Gasperi, a cui guardano per il loro futuro. Non è la NATO onestamente, anche se è chiaro che la NATO e la protezione dal punto di vista della sicurezza per loro è un’ipotesi, ma in Ucraina negli ultimi sette anni circa il mito è l’Europa. È quella donna di Tbilisi, in Georgia, con la bandiera europea contro gli idranti. È paradossale che questo mito sia spesso molto più forte nei Paesi che sono attorno e che vorrebbero entrare, che non dentro i Paesi europei nei quali tutto questo viene considerato acquisito, scontato. È normale che ci siano prosperità, welfare, diritti.

Quindi da queste due crisi effettivamente penso che l’Unione europea sia uscita più forte. Credo che abbia alle spalle un triennio se non costituente, direi almeno identitario, cioè che ha contribuito a rafforzare l’identità dell’Unione europea attraverso la scelta del debito comune, attraverso una manifestazione di solidarietà che era alla base della scelta del debito comune, perché certo c’era un interesse economico: i tedeschi non volevano l’eccessivo indebolimento del mercato unico che è la loro zona di espansione commerciale di gran lunga più importante. Se il mercato unico va male, si disgrega e si impoverisce troppo, va male anche l’economia tedesca. Ma c’era anche certamente nella signora Merkel una consapevolezza del tema della solidarietà. C’è stata, dal punto di vista identitario, la scelta di essere già da prima un attore geopolitico, c’è stata anche la maturazione graduale nel corso di questi due anni in seguito al covid perché il covid ha cambiato completamente l’idea che avevamo avuto di globalizzazione. Quindi ha posto a tutti i paesi il problema di come funzionano le catene del valore, di come funziona la logistica, di farmaci e poi la guerra lo ha riproposto sui temi energetici, la dipendenza e quindi tutti hanno cominciato a interrogarsi sulla propria autonomia e per l’unione europea questo parlare di autonomia strategica in un posto in cui, per intenderci, l’espressione politica industriale era un’espressione che non aveva diritto di cittadinanza, fino a quattro o cinque anni fa.

Come funziona l’economia europea? Funziona sulla base di un modello basato sulla concorrenza e su limiti molto severi agli aiuti di Stato. La competizione tra diverse imprese, diversi paesi non assistita dallo stato genererà progresso, sviluppo, innovazione. Il che in parte è vero, intendiamoci, ma basta guardare il mondo di oggi per capire che accanto a questo serve una grandissima iniezione anche di strategia, di supporto e di appoggio alle scelte innovative: è quella che in Italia abbiamo sempre chiamato politica industriale. Quindi un triennio che per certi versi ha cambiato moltissimo le cose in Europa e che ci lascia adesso alcune sfide fondamentali che sono in parte già avviate, in parte sono prossime e saranno le sfide su cui, credo, cimentarsi parlando di Europa nei prossimi mesi, nei prossimi anni. Io ve ne segnalo sei, concludendo. Per attirare la vostra attenzione ed eventualmente anche per discuterne nel tempo che abbiamo.

La prima, ed è forse la più importante, è la transizione verde. In realtà questa era stata la prima carta d’identità di questa Commissione europea. Cioè prima del Covid, la Commissione aveva messo sul piatto l’European Green Deal. C’è l’ambizione di essere leader nel mondo. E qui il dibattito è aperto naturalmente. Abbiamo approvato una misura che faceva parte del mio portafoglio, la carbon border adjustment. Ma oltre a questo ci sono mille altre cose, ci sono le nuove tasse sull’energia ecc., ma il punto essenziale è che io sono convinto della posizione di vantaggio di chi si muove per primo, in termini occupazionali e di posti di lavoro. L’obiezione è sempre che noi abbiamo solo il 7-8% delle emissioni di CO2 mondiali, “Anche se fate una cosa perfetta che contributo potete dare?”. Ma non è così, perchè c’è una competizione globale. Quando la commissione europea ha detto, nel dicembre del 2019, emissioni zero entro il 2050, se poi andate a vedere nei due o tre anni successivi più o meno tutti i grandi attori globali, inclusi addirittura la Cina, si sono in qualche modo allineati, perché diventa un fattore non solo di sostenibilità del pianeta ma anche un fattore di competizione di nuove tecnologie, di nuovi posti di lavoro. Quindi quando pensiamo al Green Deal dobbiamo pensare al nuovo lavoro, non soltanto ai rischi che pure ci sono. Questa è la prima grande sfida.

Le ultime elezioni regionali che sono stati in Olanda sono state vinte dal partito dei contadini che ha preso il 31% dei voti. Sapete quanti contadini ci sono in Olanda? 54 mila. Quindi non sono stati votati dai contadini. È la classica cosa di un’offerta politica che mobilita la periferia oltre il centro, che mobilita i piccoli centri, i piccoli paesi, contro le grandi città e tutto in nome delle ambizioni del governo olandese a rendere più forte la transizione energetica e la transizione climatica. Quindi una partita politica enorme nella quale bisogna scegliere da che parte si sta. E se si sta dalla parte giusta bisogna ricordarsi che per vincere questa partita bisogna aiutare quelli che questa transizione mette in difficoltà.

La seconda sfida è la sfida della crescita, le cose di cui mi occupo io, quindi non vi voglio ammorbare, perché tutte le cose di cui parliamo, l’innovazione, la transazione verde, se il PIL non cresce, è chiaro che bisogna andare oltre il PIL perché tutte le cose che ci diciamo da alcuni decenni e che sono giustissime servono a dire che non basta la crescita economica ma che deve essere anche sostenibile e sociale. Se non c’è, non ce n’è per nessuno e quindi la partita, che fa parte del lavoro di questi mesi riguardante la riforma del patto di stabilità, è su come riusciamo a ridurre il debito perché, sia pure gradualmente, sia pure senza regole impossibili da attuare, il debito nei Paesi ad alto debito va ridotto. Non è un problema che possiamo ignorare, ma senza riproporre ricette di austerity.

Terza grande sfida: prima la pandemia e poi la crisi energetica hanno scatenato una specie di corsa mondiale alle tecnologie pulite e alle catene di approvvigionamento delle tecnologie perché tutti si sono resi conto dei rischi della dipendenza: noi avevamo oltre il 40% del gas russo in Europa e adesso siamo sotto l’8%, in meno di un anno, una cosa impressionante. Ma il rischio è che queste dipendenze si ripropongano, per esempio nei minerali rari, nel solare, nei semiconduttori, magari nei confronti della Cina o di altri attori, come il l’India. Allora qui tutti si stanno ponendo questo problema con sussidi alle proprie imprese e il problema ha almeno due risvolti: il primo è che devi lavorare sulla formazione, la riqualificazione, l’adattamento del mondo del lavoro per reggere la sfida di questa enorme trasformazione.  Questo per l’Italia è un problema drammatico che pure è riuscita a ridurre la disoccupazione e ad aumentare i tassi di occupazione, ma abbiamo un tasso di occupazione femminile assurdo dal punto di vista delle statistiche europee. L’Italia non è riuscita in questi decenni a mettere in piedi politiche del lavoro che riescano ad essere efficaci. È chiaro che non è facile dire “si chiude quell’impianto industriale e voi diventate improvvisamente dei tecnici che fabbricate pompe di calore”. No, non è così banale. Ma nell’insieme questa sarà una sfida fondamentale. E altrettanto fondamentale, un dibattito che ha dimensioni mondiali, sarà difendere comunque l’idea di globalizzazione, sia pure una globalizzazione più sicura. C’è una parola che a me non piace che è circolata parecchio nel dibattito occidentale degli ultimi mesi e che friends shoring. Per intenderci, dopo tutto il tanto parlare di offshoring shoring, re-shoring, un messaggio era il commercio i rapporti economici sempre più dovranno essere fatti tra Paesi che la pensano nello stesso modo. Il G7 e poco più, anche se non sempre la pensano allo stesso modo, dipende anche da chi è al governo. Io credo che questo sia un errore. Penso che la battaglia culturale che ha fatto l’Europa in questi 6/7 mesi, lo slogan è: De-risking not De-coupling, cioè rendere le catene della globalizzazione più sicure e quindi evitando la dipendenza, evitando la ricerca di basso costo della forza lavoro o di basso costo dei materiali a tutti i costi, anche se poi la sicurezza ne soffre, quindi renderle più sicure ma non De-coupling, cioè non pensare che la tensione geopolitica tra Stati Uniti e Cina debba portare a due mercati globali paralleli che tra loro non si incrociano mai. Anche perché in questo De-coupling dove vanno l’India, il Brasile, i paesi arabi? Questa è la terza sfida. L’innovazione e la competitività ma attraverso la formazione permanente come si dice in Italia di chi lavora e attraverso un’idea di mantenere la globalizzazione, sia pure riducendone i rischi.

La quarta è quella di tenersi il nostro modello, il modello del dell’economia sociale di mercato, il modello del welfare, il modello che ha funzionato durante la pandemia. Poi si possono fare commissioni di inchiesta, ma alla fine ha funzionato molto meglio il nostro che non il modello autoritario (pensate al covid in Cina) e ha funzionato anche forse meglio di altri modelli liberi in cui però non esiste un welfare nell’accezione europea. È chiaro che anche qui è una battaglia perché le crisi che abbiamo alle nostre spalle hanno avuto dei vincitori, e questi vincitori hanno accumulato profitti in modo straordinario. In molti paesi europei si parla se e come tassare gli extra profitti che si sono realizzati in alcuni settori. Noi da Bruxelles non lo possiamo fare perché l’Unione europea non può imporre tasse, anche se è chiaro che dobbiamo trovare il modo di ridurre la diseguaglianza, se ricordiamo delle pressioni sulle famiglie che la pandemia ha provocato e se vogliamo dare un po’ di giustizia nell’ambito transizione verde, aiutando quelli che sono più in difficoltà. Se non lo facciamo sarà una partita veramente difficile.

Quinta e penultima priorità. La sintetizzo così: abbiamo oggi una grandissima attenzione alla dinamica orizzontale, tra noi come Unione europea e il nostro vicino orientale la Russia. Non dobbiamo però mai dimenticare la dimensione del futuro che è invece la dimensione verticale. È la dimensione dell’Europa, del Mediterraneo, del Golfo e dell’Africa. È la dimensione in cui abiteranno da qui a circa vent’anni alcuni miliardi di persone. Dobbiamo utilizzare in positivo questa dimensione, il che significa partnership con l’Africa e non un “atteggiamento cinese” verso l’Africa. Dobbiamo quindi affrontare il tema migratorio, cosa che l’Unione europea non è riuscita a fare negli ultimi quindici anni. E non è riuscita a farlo, diciamo la verità, non per colpa sua ma per colpa dei Paesi che hanno fatto opposizione nonostante tutti i tentativi più avanzati. Quindi rispetto al pensiero verticale vediamo come il futuro si gioca su tanti piani, ma se non diamo un taglio positivo ai nostri rapporti con il Mediterraneo e l’Africa sarà molto difficile dal punto di vista demografico, sociale, dei mutamenti climatici, dello sviluppo economico e del mercato del lavoro affrontare queste sfide.

Infine, è chiaro che l’Europa ha anche una sfida che riguarda la democrazia e la libertà e che non si limita ovviamente al fatto che bisogna aiutare l’Ucraina a resistere all’invasione russa. Questa è una dimensione, ma c’è anche una dimensione di modello: funziona meglio il modello basato sulla democrazia e la libertà? Nonostante le sue difficoltà, nonostante le sue fatiche e nonostante il funzionamento della capacità decisionale apparentemente più rapida ed efficace dei regimi autoritari totalitari. Siamo davvero “un giardino”? Qui non lo dico riprendendo quella impostazione (di padre Occhetta) ma un’altra impostazione. Il mio collega spagnolo Josep Borrell ha suscitato un pandemonio quando ha detto che l’Unione europea è un giardino di democrazia circondato dalla giungla. Giustamente, essendo lui responsabile della politica estera, quasi tutti i Paesi non europei se la sono presa. In realtà lui citava un libro di Robert Kagan e che evocava il rischio che, dopo una stagione di grande espansione della democrazia nel mondo, ci potesse essere una sfida nella quale i regimi totalitari si dimostravano di essere più efficaci. Io penso che non sia andata così, cioè penso che i sovranisti, i populisti e i regimi totalitari non hanno avuto delle buone crisi, cioè che le crisi che abbiamo alle spalle non sono state delle buone crisi. Questa mia opinione riprende l’opinione di un politologo bulgaro che si chiama Krastev. E, tuttavia, quella sfida rimane e noi non possiamo affrontarla soltanto aiutando l’Ucraina o andando a predicare libertà e diritti in giro per il mondo, rompendo anche un po’ le scatole. Dobbiamo dare una risposta anche nostra a livello di democrazia e di funzionamento di un modello basato su democrazia e libertà in Europa. E qui si torna al tema inziale. De Gasperi parlava di federazione, il sogno federalista di Spinelli. Fermi non possiamo stare su questa questione. L’Europa non sarà mai come gli Stati Uniti. Rimarrà comunque un mix tra Stati nazionali, che resteranno autonomi, e cessione di sovranità a delle entità europee. Questo mix non ce lo leva nessuno. E io dico anche magari va bene così. Quando a Umberto Eco chiedevano quale fosse la lingua dell’Europa lui rispondeva: la lingua dell’Europa è la traduzione. È vero, c’è un esercito di traduttori. A Bruxelles sono ventiquattro lingue, ma sembra che in Europa ce ne siano un centinaio di lingue. In Russia e negli Stati Uniti ci sono diverse lingue però non c’è tutto questo caleidoscopio. Quindi il mix rimarrà: ma dove lo portiamo? Lo portiamo avanti o lo facciamo riportare indietro? La differenza tra queste due crisi, le crisi degli anni Dieci e le crisi degli anni Venti, a mio avviso, è che si è riusciti ad affrontare le crisi degli anni Venti insieme. Mentre, invece, nelle crisi degli anni Dieci le dinamiche intergovernative, sull’immigrazione, sulla Grecia, la crisi finanziarie e su Brexit sono state nettamente prevalenti.

Quindi, se vogliamo che questo modello di democrazia, diritti e libertà viva, dobbiamo innanzitutto essere severi al nostro interno perché ci sono Paesi in cui non sempre le prediche che facciamo all’esterno sono rispettate. Fissiamo standard che poi non sempre siamo in grado di rispettare. Dobbiamo far progredire le nostre istituzioni europee nella direzione unica possibile che è quella di maggiore democrazia. Stavo leggendo adesso un libro di Timothy Garton Ash, che è un amico dell’integrazione europea, il quale diceva che i meccanismi di decisione politica di Bruxelles sono simili a un libretto di istruzioni per una lavatrice. In fondo ha ragione. Come si fa a uscire da questo? Si fa, a mio parere, gradualmente su alcuni temi, rafforzando la capacità di decisione del Parlamento europeo, delle istituzioni come la Commissione europea e non lasciando tutto alla continua contrattazione tra i singoli Paesi. Vi assicuro che non è facile, ma è una battaglia che dovrebbe essere sostenuta e condivisa. Il mito dell’Europa che si fonda su questo modello di libertà e di democrazia sarà forte, sopravviverà con questa sua capacità di attrazione, se anche le istituzioni europee saranno in grado di decidere in modo più libero e più democratico.