Alla vigilia del primo maggio di quest’anno, siamo ancora una volta chiamati ad un esercizio di responsabilità. In ebraico, il termine responsabilità (achraiùt) include sia la voce ach (fratello) sia achèr (altro).

La domanda che deve provocarci è quali diseguaglianze, nel mondo del lavoro, continuano, sopravvissute alle intemperie del tempo, a schiacciare “l’altro”. Era il lontano 1 maggio del 1886 quando molti lavoratori a Chicago pagarono, con la vita, la lotta per la parità dei diritti. Ancora oggi, le principali diseguaglianze restano tre.

La prima schiaccia il “genere”: le lavoratrici.

Bastano tre esempi. Primo: il tasso di occupazione femminile è minore di quello maschile di oltre 20 punti percentuali. Secondo: in tutta l’Unione europea soltanto il 15% degli uomini ha un lavoro precario a fronte del 27% delle donne, il cui 80% è adibito a mansioni di basso rilievo. Terzo: la differenza retributiva di genere è stimata intorno al 5% ma, nel settore privato, tale differenza impenna a circa il 24%, sul totale delle ore lavorate.

La seconda diseguaglianza schiaccia le “generazioni”.

Ai nuovi lavoratori è imposto un modello di lavoro che aveva esaurito la sua ragion d’essere prima ancora che nascessero: quello fordista. La generazione Z chiede più conciliazione dei tempi di lavoro, più autonomia nelle scelte, più flessibilità oraria e non semplicemente un salario più alto. In una parola sola: più benessere. Ne sono cifra l’emorragia dei silenziosi abbandoni dei posti di lavoro determinati dal quiet quitting e dalla great resgination. Ma anche le fascinazioni che i giovani subiscono da lavoretti improvvisati, come quelli di “tiktoker”. L’incapacità del mondo produttivo di farsi interprete dei nuovi bisogni ha spento l’orgoglio della fatica che “sporca le mani”. È a San Giuseppe, un falegname, a cui la Chiesa dedica il primo maggio.

La terza diseguaglianza schiaccia i “diversamente abili”.

Stenta a prevalere la consapevolezza delle loro potenzialità su quella dei loro limiti. Sul refrain secondo cui sono soltanto un onere che la legge impone alle aziende di assolvere. Eppure, nei contesti adatti, essi dimostrano di essere un’esplosione di creatività, di produttività: in una parola sola, di risultati straordinari. Lo insegnano esperienze come l’Albergo Etico, dove lavorano solo persone con sindrome di down, o come PizzAut, una pizzeria gestita da ragazzi autistici.

Il senso responsabilità ci chiama ad immaginare una possibile soluzione.

Essa passa per la riscoperta della centralità della persona, sulle orme dei Padri e delle Madri Costituenti. Si tratta di risalire, lungo il sentiero, alle tracce della dignità sociale che la Costituzione riconosce ad ogni persona, prima ancora che perché lavoratore, in quanto cittadino della Repubblica.

Su questo piedistallo poggia il comma 1 dell’articolo 3 della Costituzione quando solennemente proclama: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge”. “Government of the people, by the people, for the people” fu, del resto, la definizione della democrazia che Abraham Lincoln espresse durante la conferenza di Gettysburg del 19 novembre 1863.

Da un punto di osservazione più pratico, questo significa rimettere alle comunità aziendali e territoriali il compito di garantire, con policy e accordi collettivi di secondo livello cuciti a misura, i bisogni di lavoratrici, giovani lavoratori e disabili. Ad essere centrali sono un’evoluta cultura sulla sicurezza, azioni in grado di stimolare i talenti, di curare il benessere organizzativo, sperimentazioni sullo smart working, nuovi role model, formazione sulle nuove soft skills, anche di natura relazionale.

Si tratta delle politiche di sostenibilità, anche dette “Esg” (Environmental, Social and Governance) di welfare, di work life balance, di diversity e inclusion.

In definitiva, la lotta alle diseguaglianze è possibile. Ma impone di “assumersi la responsabilità” di inseguire un ideale. Come insegnava Carl Christian Schurz, gli ideali sono come le stelle. Li scegliamo come guida e, seguendoli, raggiungiamo il nostro destino. Sulla sponda opposta, restano coloro che, secondo Kant, si accontentano di affermare “che il mondo sarà sempre così come è andato finora”.

Ecco, la speranza è che quell’ideale generi un mondo diverso. E, nel 2024, un primo maggio con meno diseguaglianze.