di Anna Maria Tarantola

Il testo nasce da una lezione tenuta al Rotary di Firenze da Anna Maria Tarantola, Presidente della Fondazione Centesimus Annus Pro Pontefice, l’8 marzo 2021.

Oggi è il giorno delle donne. È una giornata che si vive con emozione, si parla delle donne, ci sono le mimose e poi…ci si dimentica e le cose vanno più o meno avanti come prima. Oggi non voglio fare rivendicazioni, ma riflettere con voi su alcuni aspetti rilevanti per il raggiungimento di una piena e reale uguaglianza di genere e perchè sia necessaria.

L’empowerment delle donne è un tema su cui è creciuto l’interesse negli ultimi anni, ma ci sono ancora non pochi stereotipi ed aspetti da approfondire, soprattutto con riferimento agli effetti negativi che una limitata presenza di donne nelle posizioni apicali e nel mondo del lavoro in genere determina sulla società e sull’economia.

Oggi il tema è ancor più rilevante perchè la pandemia ha messo in luce l’impellente necessità di avviare una rigenerazione del nostro modello di sviluppo verso un modello più giusto, più equo, più solidale e più sostenibile. Le donne, molti studi lo mostrano, hanno caratteristiche particolarmente idonee a favorire un tale processo verso uno sviluppo economico, sociale e ambientale sostenibile e centrato sulla persona.

Promuovere l’uguaglianza di opportunità e di responsabilità tra donne e uomini è necessario sia per garantire uguali diritti (è una questione di giustizia sociale), sia come precondizione per arricchire il processo di sviluppo e conseguire una crescita maggiore e di migliore qualità. Nel 1992, l’Agenda 21 della United Nation Conference on Environment and Development prese impegni per rafforzare la posizione delle donne nell’economia e nella società. Sono passati 29 anni e la situazione è la seguente:

1. La situazione

Nel mondo del lavoro la parità di genere è ancora un obiettivo lontano da raggiungere. Il tasso di occupazione femminile (tof), secondo la rilevazione ISTAT al 25 novembre 2020, è inferiore al 50% rispetto a circa il 70 % di quello maschile, situazione ancora molto lontana dall’obiettivo di Lisbona (60%); ampio è il divario tra centro-nord e sud. In UE il tof è ca. il 63%. L’Italia, secondo il Global Gap Report 2020, si colloca al 76° posto su 153 paesi soprattutto per effetto della scarsa partecipazione delle donne alla vita economica. Lo stesso rapporto indica che per raggiungere la parità di genere nel mondo ci vorranno 99 anni e mezzo;

Le donne sono sovrarappresentate nelle posizioni lavorative meno remunerate e con minore contenuto professionale e questo, come si è drammaticamente visto nel tempo della pandemia, ha inciso negativamente sulle donne che, insieme ai giovani, risultano le più colpite dal calo occupazionale;

Le donne hanno maggiori difficoltà a raggiungere posizioni di vertice sia nel settore privato che in quello pubblico. Nonostante gli effetti positivi della legge Golfo-Mosca, al termine del periodo di vigenza la situazione non si era stabilizzata come auspicato, e quindi nel 2019 la legge è stata rinnovata, portando la percentuale da osservare dal 30% al 40% di donne nei CdA. La situazione è ancora lontana dal 30% nelle società non quotate ed è molto arretrata nelle banche, nelle società finanziarie e assicurative. Solo un manager su cinque è donna, contro una media europea di uno su tre. Nell’industria solo il 12,6 % dei manager è donna (Ricerca Federmanager 2018);
 
La presenza femminile è ancora bassa nella politica, nelle scienze, nella tecnologia;

Elevata è la disparità di trattamento salariale, secondo il citato Global Gap Report 2020 siamo al 125° posto su 153. La pandemia ha peggiorato la situazione. La remunerazione delle donne è significativamente inferiore (secondo alcune ricerche del 13%, secondo altre del 17%) a quella degli uomini a parità di mansioni e di ruoli; secondo Federmanager le donne dirigenti guadagnano il 14% in meno degli uomini. Anche le pensioni sono molto inferiori;

– Le donne sono più povere degli uomini, si tratta della cd. “femminilizzazione della povertà”; tra l’altro l’Italia registra la più alta percentuale di famiglie monoreddito in Europa e questo le rende più vulnerabili;
 
Scarsa è anche la percentuale (3%) di ragazze che frequentano i corsi cd. STEM (scienza, tecnologia, ingegeneria, matematica) molto probabilmente a causa della persistenza di stereotipi nelle stesse famiglie, che ancora ritengono certe materie, certi compiti, certi lavori idonei soltanto al mondo maschile. Questo riduce la possibilità per le giovani donne di accedere a lavori meglio remunerati e innovativi;
 
La conoscenza economico-finanziaria delle donne è particolarmente bassa e questo le rende più vulnerabili ad eventi negativi;
 
Il tempo dedicato dalle donne ai lavori di cura è ancora molto elevato (oltre il 70%) e di molto superiore a quello degli uomini con indubbi effetti negative sul tempo che le donne possono dedicare al lavoro fuori casa e a sé stesse. Si innesta così un cortocircuito che porta all’autoesclusione delle donne dal mondo del lavoro e dalle possibilità di carriera.

Tutti questi dati mostrano che c’è ancora molto da fare per perseguire la piena valorizzazione dei talenti femminili, considerate anche che il processo verso l’uguaglianza non avviene automaticamente con lo sviluppo economico, ma richiede lavoro e un impegno costante da parte delle istituzioni, delle imprese e della politica. Lo hanno rilevato anche alcune Ricerche della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale.Inoltre, occorre ricordare che il processo non è irriversibile: i traguardi conseguiti possono essere perduti facilmente.
Il conseguimento dell’uguaglianza di opportunità e di condizioni per le donne è vantaggioso o è un costo? Credo che nessuno neghi che si tratti di una cosa giusta, ma temo che molti dubitino sia anche utile.

2. I vantaggi

Cercherò di dimostrare come, invece, la disuguaglianza di genere non solo è ingiusta, ma è anche un costo per la società e per le imprese; una perdita del valore aggiunto che le donne possono dare con il contributo personale e differenziato rispetto agli uomini. La diversità di genere – non solo uomini, non solo donne, ma uomini e donne insieme in economia, nella politica, nelle istituzioni – apporta benefici in termini di crescita economica, di produttività delle imprese, di condizioni di vita, di benessere per tutti. Come dicono gli economisti, è una cosa giusta e intelligente. La loro presenza è particolarmente necessaria in questa fase storica in cui dobbiamo costruire un mondo nuovo attraverso un processo di rigenerazione.
Vediamo nel dettaglio.

– Molti studi (Organizzazione per la cooperazione e per lo sviluppo economico – OCSE, Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Banca d’Italia, Censis, Pearson Institute for International Economics di Washington, per citarne alcuni) hanno mostrato che se la partecipazione femminile raggiungesse in ogni paese i livelli di quella maschile, ne conseguirebbe una notevole espansione del prodotto globale. Secondo alcuni studi in Italia il Pil potrebbe aumentare del 7% se si raggiungesse la parità (Banca d’Italia) e, secondo altre fonti, la crescita potrebbe raggiungere anche il 14%. Il recente rapport OCSE rileva che se il gap di partecipazione delle donne all’economia si dimezzasse, il Pil aumenterebbe del 2% nei prossimi 8 anni;

– il reddito delle donne che lavorano contribuisce ad elevare il reddito familiare riducendo il rischio di povertà (in Italia 4,5 milioni di persone sono a rischio povertà), aumenta la massa fiscale e previdenziale e la domanda di beni e di servizi, attiva un circolo virtuoso che genera occupazione e, quindi, ulteriore crescita economica;

– investire sulle donne ha un effetto positivo sulle nascite (nei paesi con più alto tasso di occupazione femminile le donne fanno più figli), sulla salute e sulla nutrizione, soprattutto dei bambini, sullo sviluppo cognitivo dei figli e quindi sul capitale umano e sociale;

si minimizzano gli effetti economici negativi del deficit demografico perchè le donne che lavorano fanno più figli (es. Francia e azioni attivate in Germania);

– si perseguirebbero migliori politiche ed istituzioni più efficienti perchè le donne si sono dimostrate buone amministratrici della cosa pubblica, particolarmente attente ai temi dell’ambiente, salute, infanzia. Per esempio, in India ed in altri paesi in via di sviluppo, dove ci sono state delle donne a guida del Villaggio, per due tornate elettorali si sono osservati sensibili miglioramenti nell’amministrazione della cosa pubblica ed un importante “effetto modello”;

una più elevata presenza di donne nelle posizioni dirigenziali delle aziende, non solo come componenti dei board ma come manager, migliora la redditività e le quotazioni delle stesse (secondo una ricerca del Pearson Institute le imprese con almeno il 30% di donne nel CdA registrano un incremento del 6% dell’utile netto); si riduce la rischiosità perchè le donne sono più avverse al rischio, le imprese sono più stabili; i CdA funzionano meglio e cresce l’attenzione al sistema dei controlli, alla sostenibilità e alla resilienza.

cresce la produttività: secondo uno studio di Cuberes e Teignier (2013) il divario di genere produrrebbe per l’Italia una perdita di produttività del 15% (sarebbe del 10% in Germania, del 9% in Francia).

anche la Chiesa trarrebbe vantaggio da una presenza più attiva delle donne. S. Giovanni Paolo II ne ha parlato nella lettera apostolica Mulieris Dignitatum, ma vorrei citare un’affermazione di Papa Francesco fatta nella conversazione con i gesuiti del Cile il 16 gennaio 2018: «La donna deve dare alla Chiesa tutta quella ricchezza che von Balthasar chiamava la dimensione mariana. Senza questa dimensione la Chiesa resta zoppa o deve usare le stampelle, e allora cammina male. E credo che si sia molto da camminare…»[1].

3. Donne e solidarietà
 
Nella sua prima omelia del 2020, il Santo Padre ha affermato che: «La donna è donatrice e mediatrice di pace e va pienamente associata ai processi decisionali. Perchè quando le donne possono trasmettere i loro doni, il mondo si trova più unito e più in pace. Perciò una conquista per la donna è una conquista per l’umanità». Al riguardo abbiamo avuto esempi importanti nella gestione della pandemia: i governi gestiti dalle donne hanno mostrato una maggiore capacità di azione e di reazione (Nuova Zelanda, Germania, Taiwan, …). Ricordo poi due esempi di azioni fatte da donne per la pace: la prima è la mediazione a Davos di Ursula Von der Leyen con Trump sulla questione dei dazi che ha aperto spiragli di dialogo; la seconda è l’opera di Angela Merkel per la Libia. Entrambe hanno attivato, in modo pragmatico ma risoluto, forme di mediazione per evitare conflitti.

Un effetto che si è poco analizzato è l’impatto che una maggiore leadership femminile può determinare in termini di sviluppo più umano e sostenibile. Sone le caratteristiche femminili (pazienza, minore aggressività, prudenza, intuizione, empatia, disponibilità all’ascolto e al lavoro di squadra, pragmatismo, concretezza, visione e progettazione nel lungo periodo) che portano le donne ad essere più sensibili all’ambiente, alla solidarietà e al bene comune. Di fronte all’emergenza climatica, alla crescita delle disuguaglianze create dalla globalizzazione, alle paure e alle problematiche etiche connesse all’innovazione scientifica e tecnologica – continua, rapida e non governata – le caratteristiche femminili potrebbero essere un antidoto importante. Nel mondo degli affari, sulla spinta della diffusione della CSR (Corporate Social Responsibility) e dei fattori ESG (Environmental, Social, Governance) si sta sempre di più riconoscendo la valenza delle caratteristiche femminili per il buon andamento delle imprese. Alcune agenzie di head hunting cercano uomini con caratteristiche femminili perchè più adatte al contesto attuale. Non sarebbe meglio se cercassero donne?
 
È veramente uno spreco non avvalersi dei talenti e delle caratteristiche femminili, ma per avvalersi di questi vantaggi le imprese si devono “aprire” al femminile e colmare il divario tra competenze ed assunzioni: spesso, infatti, i datori di lavoro preferiscono ancora assunere un uomo. Bisogna quindi creare una cultura aziendale più inclusiva e a supporto delle donne lavoratrici, riducendo le cooptazioni. Come mai in presenza di questi vantaggi i divari persistono?

4. Le cause delle disparità

I motivi dei divari ancora esistenti sono molteplici. I più profondi sono di tipo culturale, per questo difficili da affrontare e sradicare, ma rilevano anche le barriere normative, istituzionali (formali e informali), organizzative e di mercato.
Secondo alcune ricerche della Banca Mondiale, le differenze dipendono da che cosa succede all’interno dei nuclei familiari, da come le famiglie interagiscono con le istituzioni, dalla struttura e qualità delle leggi e dei diritti, dalla qualità e quantità dei servizi pubblici disponibili, dall’istruzione, dai mercati e da come tutto ciò interagisce e influisce con e sulle cd. “istituzioni informali”, cioè le norme sociali che interiorizziamo sin da bambini e che guidano le nostre scelte e le nostre decisioni su quali siano i ruoli “naturali” di uomini e donne.   

L’aspetto culturale è complesso e difficile da aggredire nel breve periodo, perché tocca modi di pensare e comportamenti radicati, atavici, che alimentano e sono alimentati da pregiudizi e stereotipi.

Sul piano del lavoro è ancora diffusa, soprattutto nelle pmi, l’opinione secondo cui le donne sono poco credibili, poco pronte ad assumere decisioni, troppo emotive, poco resistenti, senza attitudine al comando, non portate agli affari e alla tecnica, poco propense alla competizione, più preparate degli uomini ma meno affidabili. E poi si sente ancora spesso affermare “ma cosa vogliono queste donne? Stiano a casa, é il loro mestiere”. C’è ancora una grande difficoltà ad accettare che una donna possa scegliere di valorizzare fuori casa le sue competenze, trarre soddisfazione da un lavoro ben fatto, avere una giusta remunerazione che le dia indipendenza economica, oltre che la possibilità di contribuire al reddito familiare.

Gli stereotipi sono all’origine di un fenomeno spesso non percepito e pertanto difficile da combattere: la cd. “discriminazione implicita“, non voluta ma esistente che porta a scelte sfavorevoli alle donne. Gli stereotipi escludono le donne e ne alimentano l’autoesclusione. Costituiscono una barriera sottile ma forte, tanto da compromettere il perseguimento di una equità reale, che prescinda dal genere, sia orizzontale (pari trattamento delle risorse che possiedono pari capacità) che verticale (uguali opportunità di carriera in funzione delle capacità).
La cultura è difficile da cambiare: il Governo Renzi aveva un’ampia presenza di donne, vorrei però ricordare che i commenti del giorno dopo sulla squadra di governo erano sui curricula per gli uomini, sulla mise per le donne. Le cose sono poi peggiorate nei governi successivi.

Il fattore tempo è un’altro importante ostacolo. I talenti delle donne sono troppo spesso mortificati dalla difficoltà di conciliare famiglia e lavoro.
I cd. work-family conflicts, le situazioni di disagio o di pressione che la donna subisce nel tentativo di conciliare più ruoli (lavoratrice – moglie – madre – figlia), costituiscono dei veri e propri sbarramenti. Questa situazione di affanno provoca spesso l’uscita dal mercato, perché quando una donna è messa di fronte alla scelta lavoro/famiglia sceglie quasi sempre la famiglia e questo, come ho cercato di argomentare, è un danno per il Paese, oltre che per la famiglia e per la donna stessa.

I modelli organizzativi delle imprese sono un altro fattore frenante (es. orario delle riunioni…) così come la carenza di servizi efficienti (ad es. asili nido, trasporti, forme di sostegno).

Infine, ma non ultimo, la maternità è certamente la principale causa (volontaria o imposta) di uscita della donna dal mondo del lavoro e/o di forte rallentamento della crescita professionale. Quando una donna è messa di fronte alla scelta tra famiglia e lavoro, ancora oggi, nella maggioranza dei casi preferisce la famiglia. Il fatto è che una società giusta ed intelligente non dovrebbe imporre alle donne una simile scelta, così come non la impone agli uomini.

5. Le possibili azioni da attivare
 
Poichè le cause dei divari sono molteplici, anche le azioni devono essere molteplici. Ma, come ho sostenuto in altre occasioni, più che singole azioni, magari scoordinate tra di loro, sarebbe opportune un unico e ben definito piano di azione a livello nazionale che veda coinvolti, collaborando e operando insieme, la politica, il Governo, le istituzioni, le imprese, le famiglie, la scuola e i media. Le singole azioni non hanno la stessa efficacia di un programma unitario, incisivo e condiviso, ben declinato in termini di cose da fare, responsabilità, ruoli, tempi di realizzazione e controlli. Ognuno degli attori coinvolti ha molte cose da fare, in coordinamento con gli altri.

Le imprese possono fare molto: innanzi tutto operare, e questo è soprattutto compito dei capi, per la diffusione di una cultura aziendale inclusiva, combattere gli stereotipi, che purtroppo persistono (la discriminazione implicita è terribile), colmare il divario tra competenze ed assunzioni (spesso infatti i datori di lavoro preferiscono ancora assumere un uomo), cambiare i loro modelli organizzativi che sono spesso un fattore frenante, del resto il mondo moderno lo richiede, rendere più flessibili i luoghi e i tempi di lavoro (smart working, part-time, telelavoro, banca delle ore ecc.), programmare meglio l’orario delle riunioni, adottare una policy di genere (cfr. Lavoro di Fuori Quota). E ancora: attivare servizi efficienti (come gli asili nido, perché la maternità non è un costo ma un investimento) e aiutare le donne che rientrano dalla maternità ad aggiornarsi tempestivamente con appositi corsi di formazione ecc. Senza contare che avere una policy di genere, serve ai fini della Relazione sulle attività non finanziarie, per dimostrare l’attenzione alla sostenibilità, ai criteri ESG e quindi ad ottenere una migliore valutazione dei mercati che sono sempre più attenti a tali aspetti.

Le leggi e i contratti devono essere declinati avendo presente l’impatto sul ruolo e sulle possibilità di lavoro delle donne. Per uno sforzo concreto verso la parità è necessario concentrarsi sulle differenze, che non spariscono con lo sviluppo.
Secondo la Banca Mondiale, sono molto utili ed efficaci gli interventi nel mondo del lavoro e in quello della politica volti ad eliminare i cd. “piccoli multipli”: il supporto che la donna riceve o non riceve in termini di assistenza e cura dei bambini, il Sistema dei trasporti pubblici, l’ambiente, i cambiamenti delle norme sociali. Poichè la legislazione non è mai neutrale, bisognerebbe sempre valutare l’impatto di genere. Purtroppo, nel nostro paese, il Sistema di welfare riflette ancora lo squilibrio di genere nella ripartizione delle responsabilità familiari.

I Governi dovrebbero agevolare l’adozione di azioni positive di sostegno sia a livello nazionale che aziendale. Ad es. si può agevolare normativamente l’adozione di forme flessibilità dei luoghi e dei tempi di lavoro (smart working, part-time, telelavoro, banca delle ore ecc.) , aumentare i servizi offerti (es. asili nido: secondo i dati ISTAT del 2019, meno di un bambino su quattro ha la possibilità di frequentare un asilo nido pubblico), attivare progetti formativi ad hoc per le donne, prevedere forme di sostegno finanziario e una normativa fiscale favorevole, incentivare le imprese ad adottare policy di genere. La previsione di congedi parentali per i padri, di maggiore durata rispetto a quello ora riconosciuti di qualche giorno, sarebbe molto utile per il perseguimento della parità perché attenuerebbe l’effetto discriminante della maternità. Si potrebbero anche prevedere forme di sostegno formativo per i genitori. La condivisione del progetto genitoriale e di vita è fondamentale.

Nell’ambito di un piano unitario di azione verso una concreta parità un ruolo fondamentale dovrebbe competere al mondo educativo, dove si formano i cittadini di domani. Una scuola che educhi al rispetto di tutti, anche delle donne, del loro ruolo e della loro dignità, che trasmetta il messaggio secondo cui l’evoluzione dell’essere umano è il risultato dell’azione congiunta di donne e uomini. Le Università dovrebbero “istituzionalizzare” l’attenzione alla cultura di genere. I curricula scolastici dovrebbero valorizzare il rilevante ruolo svolto dalle donne nella storia, nella società, nel mondo dell’arte e delle scienze. Bisogna anche guidare le giovani a scegliere le materie STEM attraverso un’opera capillare di informazione, sensibilizzazione e supporto. Non è vero che le donne non sono portate alle scienze, alla matematica e alla tecnologia.

Anche i media, nel bene e nel male, possono fare molto. Negli ultimi vent’anni hanno fornito una rappresentazione distorta delle donne, privilegiando il lato estetico. Il messaggio che è stato trasmesso si può riassumere così: se vuoi essere qualcuno devi essere bella, le competenze contano poco. Dobbiamo cambiare completamente questa linea editoriale, che alimenta gli stereotipi e la concezione della donna come oggetto.

Infine, ma non ultimo, credo sia molto utile condividere le esperienze delle donne che “ce l’hanno fatta” e diffondere informazioni su modelli femminili positivi. Aiutare le giovani donne a credere in sé stesse (spesso sono molto timorose, non si propongono spontaneamente), a investire nelle proprie capacità e a sviluppare le proprie potenzialità, senza però replicare i modelli di comportamento maschili. Infatti, è dall’insieme delle diversità che si crea efficienza, non dall’omologazione, né dalla prevaricazione di un modello sull’altro.

Naturalmente lo Stato e le imprese dovrebbero sostenere dei costi, ma si tratta di investimenti ad alta resa con rilevanti impatti positivi:
– per lo Stato si prospetta più crescita di buona qualità, crescita delle nascite e più coesione sociale,
– per le imprese si tratta di conservazione dei talenti, diminuzione dell’assenteismo, creazione di un clima più sereno, crescita della produttività, della redditività, delle stesse quotazioni.
 
In conclusione, come ho già detto, non sto sostenendo che le donne siano meglio degli uomini ma, piuttosto, che sono “la metà del mondo” con potenzialità enormi che vanno valorizzate perchè utili alla società. È la diversità che comporta vantaggi, avvalersi delle caratteristiche maschili e femminili insieme porta a migliori risultati in tutti i campi. L’uguaglianza di genere è un diritto, è un fattore di giustizia ed è la cosa giusta e più intelligente da fare. Come ho gia detto i vantaggi sono numerosi: favorisce l’equità, produce crescita economica ed occupazione, migliora lo sviluppo sociale, la situazione delle famiglie e le prospettive future dei figli, comporta benefici alle imprese, alle istituzioni, alla politica, allo Stato in generale.

Il messaggio che vorrei lasciare è che tutti dobbiamo credere nella necessità di un sostanziale perseguimento dell’equilibrio di genere, per portarlo fino in fondo con una azione incisiva e continua, non sporadica. Questa azione non deve perseguire un’omologazione di modelli, ma la parità di opportunità e di responsabilità nella diversità.
Le donne hanno livelli di istruzione elevati – si laureano in minor tempo e con migliori valutazioni rispetto agli uomini – e possiedono caratteristiche, competenze e abilità, che sono cruciali nel mondo del lavoro, dell’economia e della società tutta, soprattutto nel tempo della pandemia. Oggi abbiamo una grande occasione, la Next Generation EU che tra gli obiettivi, insieme alla transizione verde e digitale, prevede “l’attenuazione dell’impatto sociale ed economico della crisi, in particolare sulle donne”. I fondi ci sono, vanno impegnati entro il 2023 e spesi entro il 2026. È un’occasione che non possiamo perdere, per il bene di tutti.

Le donne sono una risorsa, utilizziamola. Se vogliamo crescere dobbiamo aprire i cancelli ai più meritevoli e di donne meritevoli ce ne sono molte. Dobbiamo costruire una società in cui tutti possano concorrere per la migliore posizione e in cui il capitale umano di una donna non valga meno di quello di un uomo.

[1] La Civiltà Cattolica n. 4024, pag. 317.