di Vincenzo Pugliese
L’ambiente rappresenta la pietra miliare di questa campagna elettorale. Si tratta di un tema driver del voto. Ma qual è la migliore strategia per trasformare gli slogan politici in provvedimenti governativi? Riporto due elementi sui quali invito a riflettere (magari anche in una sessione pubblica) i leader dei partiti.
Inquadrare la questione ambientale sotto un profilo concreto, sostanziale e non trascendentale come spesso accade. Ma soprattutto, come un unicum e non più una autonoma disciplina degli interessi pubblici connessi al servizio di igiene urbana o al governo del territorio. In altri termini: prendere atto del carattere interdisciplinare dell’ambiente, quindi passare da un approccio visionario a quello più pratico.
All’interno di questo perimetro, due sono le azioni (legislative), che produco effetti immediati. Primo: rendere veramente obbligatorio il Green Public Procurement. Gli appalti pubblici sono l’unico strumento idoneo a trasformare finanziamenti in beni e servizi. Il ruolo della Pubblica Amministrazione è fondamentale, non solo per la riduzione degli impatti ambientali, ma soprattutto per l’influenza che esercita sul mercato. Per fare un esempio concreto: la sostituzione dell’arredo della stanza del prossimo Presidente del Consiglio o dei vari ministri oppure la costruzione, ristrutturazione e manutenzione di edifici pubblici attraverso gare d’appalto che prevedano criteri ambientali minimi si traduce:
I) in maggiore durata di vita dei beni e minore produzione di rifiuti, II) minori emissioni, minori rischi per la salute umana, III) incentivi per i produttori ad investire nella produzione green. Ma il ragionamento vale anche per la gestione delle mense scolastiche o del trasporto pubblico delle città. Tuttavia, i dati relativi all’applicazione dei CAM nelle stazioni appaltanti sono inquietanti. D’altronde se la sfida fondamentale in questo momento storico consiste nell’elaborare un grande progetto per rilanciare l’economia (europea), è fondamentale individuare lo strumento del public procurement come una leva per lo sviluppo e l’innovazione.
La seconda “promessa” elettorale: riempire il Paese di “impianti minimi” di trattamento dei rifiuti urbani. Purtroppo, quando la ragione elettorale prevale su quella politica tout-court accade che i primi cittadini tolgono la fascia tricolore per indossare l’elmetto. Nel settore dei rifiuti gli scontri tra istituzioni sono all’ordine del giorno. È cosa nota l’allungamento dei termini dei procedimenti amministrativi a causa di un mancato “allineamento” istituzionale. Ma tutto ciò ha prodotto un unico risultato: la distribuzione geografica degli impianti non risulta omogenea fra le Regioni in termini di numerosità, capacità autorizzata e scelte tecnologiche. Quote considerevoli di rifiuti del centro Italia e del Mezzogiorno vengono trattati in impianti localizzati in altre regioni. A titolo di esempio, la sola Lombardia riceve da altre Regioni 373 mila tonnellate. Nello stesso tempo, però, il Programma Naz. di Gestione dei Rifiuti, che rappresenta un tassello fondamentale nel grande mosaico del PNRR, individua i target intermedi che i Piani Regionali dovranno contenere per garantire il raggiungimento dell’obiettivo al 2035 il 10% dei RU collocati in discarica.
È cosa nota l’estrema disomogeneità del settore rifiuti, sotto il profilo della governance delle infrastrutture e delle performance. Ma gli enti di governo hanno delle competenze preziose, fondamentali per affrontare le peculiarità territoriali e la grande sfida della regolazione. C’è da dire, ad onor del vero, che il “sistema ambiti”, non tanto sul versante idrico, quanto su quello dei rifiuti, sconta ancora il vizio originario: le dinamiche conflittuali che hanno caratterizzato l’evoluzione delle competenze tra i vari livelli di governo del territorio. Questo sistema compie esattamente 10 gli anni. Dal 2012, in questo lungo intervallo temporale, si può dire che un motivo di resistenza va certamente individuato nel timore, avvertito soprattutto dai Comuni di minore dimensione, di marginalizzazione nei processi decisionali condotti a livello di ambito.
Un altro motivo è riconducibile alla proliferazione normativa che ha prodotto una progressiva disorganicità dell’impianto originario del codice dell’ambiente. Per fare un esempio concreto: i Comuni mantengono una certa potestà nel determinare quali servizi (accessori) debbano rientrare nel servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani. Emblematico il caso, oggetto di una celebre pronuncia della giurisprudenza amministrativa, in cui il Comune di Como aveva incluso nel perimetro del servizio di nettezza urbana anche l’attività di pulizia del lago! Questo è un esempio significativo che serve a rappresentare chiaramente come la capacità di organizzazione (e regolazione del servizio) degli enti preposti a livello d’ambito sia ancora oggi inficiata dagli ampi margini di discrezionalità che residuano in capo ai Comuni, i quali finiscono per produrre effetti diretti e distorsivi sulle scelte operate a livello d’ambito.
Quindi, in altri termini, deve passare il messaggio che l’ente di gestione dell’ATO, nella sua attitudine organizzativa, non sia un soggetto neutrale e non può limitarsi a fare da semplice “intermediario” tra i comuni e il gestore, trascurando l’universalità della gestione e l’integrazione dei servizi del ciclo dei rifiuti. In questo caso, più che in altri, è necessario un commissario governativo che levi dall’imbarazzo i presidenti di Regione ed i sindaci.
Ora, ai candidati la parola!