di Cristina Ponti

Gli aumenti dei costi dell’energia, registrati sul finire del 2021 ed ulteriormente incrementatisi in conseguenza dell’attuale conflitto in Ucraina (e di cui ad oggi non si prevede ancora l’esito), hanno accelerato nel nostro Paese, ma non solo, il dibattito sugli approvvigionamenti, in particolare del gas, e sul ricorso a fonti alternative con basso impatto ambientale. In questo contesto di crisi energetica la scelta del nucleare è considerata nuovamente percorribile, perché valutata più “pulita” rispetto ai combustibili di origine fossile.

È opportuno precisare che quando si parla di “ritorno al nucleare” si intende l’uso di reattori che utilizzano tecnologie di ‘fissione’, in cui atomi molto pesanti di materiali radioattivi (di cui i più usati, e pertanto i più noti, l’uranio ed il plutonio) vengono bombardati per essere separati in atomi più piccoli e rilasciare così grandi quantità di energia. Le reazioni di fissione che si verificano in una centrale nucleare sono sostanzialmente le stesse che vengono impiegate nelle armi atomiche; nelle centrali nucleari, tuttavia, queste reazioni avvengono in modo controllato, al fine proprio di estrarre energia e di non disperderla. Il funzionamento delle centrali nucleari a fissione, tuttavia, non è esente da rischi di sicurezza, rispetto, ad esempio, alla manutenzione degli impianti ed allo stoccaggio delle scorie radioattive. In Italia, in seguito al noto incidente di Cernobyl del 1986 ed alla risposta ai successivi quesiti referendari del 1987, fu avviato un processo di dismissione delle centrali nucleari, conclusosi nel 1990. I cittadini italiani si sono espressi sul tema anche con il referendum del 2011, in favore dell’abrogazione di norme che avrebbero consentito nuovamente la produzione di energia elettrica nucleare nel territorio nazionale.

A livello Europeo, l’articolo 194 del Trattato riconosce ad ogni Stato membro “di determinare […] la scelta tra varie fonti energetiche e la struttura generale del suo approvvigionamento energetico” [1]. Attualmente, sono tredici i Paesi UE che ospitano reattori a fissione per la produzione di energia. Tra questi, la Francia, stato che ha fatto largamente uso del nucleare, ha previsto, secondo le parole del Presidente Macron, la costruzione di sei nuovi reattori entro il 2037, a cui se ne andranno ad aggiungere altri otto negli anni seguenti. Posizione opposta è quella assunta dalla Germania, con il recente avvio di un processo di spegnimento delle centrali nucleari, che sarà concluso entro la fine del corrente anno. Nell’atto delegato sulla tassonomia, adottato dalla Commissione Europea il 9 marzo 2022, e per il quale lo scorso 6 luglio l’Europarlamento ha votato contro la risoluzione di rigetto, è stato proposto l’inserimento del nucleare, oltre che del gas, tra le tecnologie ritenute sostenibili a livello ambientale [2]. In questa prospettiva, che potrebbe guidare i Paesi UE all’introduzione del nucleare nel proprio “mix” energetico, i tempi di attuazione si annunciano tuttavia relativamente lunghi, anche per la necessità dell’individuazione dei siti per gli impianti di produzione e per i depositi delle scorie del ciclo produttivo [3].

Restando nell’ambito del nucleare, una strada diversa per la produzione di energia pulita è quella della ‘fusione’ nucleare a confinamento magnetico, che ad oggi, tuttavia, è ancora in fase di studio. La fusione nucleare si basa su un meccanismo fisico che possiamo definire opposto rispetto a quello della fissione: due atomi si fondono in un unico atomo, più pesante, rilasciando in questo processo una grandissima quantità di energia.  La fusione nucleare è un fenomeno che si verifica spontaneamente nel Sole tra gli atomi di idrogeno, elemento di cui le stelle sono largamente formate, grazie a condizioni favorevoli di elevata temperatura e forza di gravità. Riprodurre sul nostro pianeta le stesse reazioni che mantengono in vita il Sole richiede di riscaldare l’idrogeno a temperature di centinaia di milioni di gradi e si presenta come una grande impresa scientifica che richiede importanti sforzi tecnologici, oltreché economici. A fronte di queste difficoltà tecniche, perseguire la strada della ricerca sulla fusione nucleare offre molteplici vantaggi. Tra questi, si evidenzia che l’idrogeno, quale combustile della fusione, sia disponibile in natura in quantità praticamente illimitata, a differenza dell’uranio, combustibile della fissione, e dei combustibili fossili, petrolio e gas. Diversamente dalla fissione, il meccanismo della fusione non comporta rischi di incidenti nucleari, con vantaggi non trascurabili sotto il profilo della sicurezza degli impianti. Sebbene, inoltre, la fusione nucleare non sia esente dalla produzione di materiale radioattivo, il decadimento di questa radioattività avviene su un periodo di circa 12 anni, brevissimo, soprattutto se paragonato alle migliaia di anni necessarie per il decadimento della radioattività nelle scorie prodotte dalle centrali a fissione.

Lo scorso 9 marzo, in un discorso alla Camera, il Primo Ministro Mario Draghi ha annunciato: “L’impegno tecnico ed economico è concentrato sulla fusione a confinamento magnetico, che attualmente è l’unica via possibile per realizzare reattori commerciali in grado di fornire energia elettrica in modo economico e sostenibile”, confermando la necessità, per l’Italia, di continuare ad impegnarsi in questo importante settore. Il ruolo della ricerca scientifica condotta in Italia nel settore della fusione nucleare è di primo piano, con una lunga storia, iniziata alla fine degli anni ’50 del secolo scorso, con le ricerche presso gli allora “Laboratori Nazionali di Frascati”, e di cui si ricorda, tra le principali attività, il reattore sperimentale FTU (Frascati Tokamak Upgrade), che è stato operativo dal 1989 e dismesso solo di recente. Attualmente, il principale progetto italiano di ricerca sulla fusione è rappresentato da DTT (Divertor Test Tokamak) [4]; il nuovo reattore, che sarà realizzato presso il Centro Ricerche ENEA, sempre a Frascati, per condurre nuovi studi scientifici, vede il coinvolgimento di numerosi enti di ricerca ed università, attraverso un finanziamento di 600 milioni di Euro, in gran parte italiano. A livello europeo, la ricerca sulla fusione, attraverso il consorzio EUROFusion, riguarda principalmente le sperimentazioni condotte presso il JET (Joint European Torus), il più grande reattore per fusione al mondo, che si trova nei pressi di Oxford, ed il progetto ITER (International European Tokamak), un reattore in costruzione in Francia, a Cadarache, vicino a Marsiglia, la cui operatività è prevista a partire dal 2025. Se il progetto ITER si pone importanti obiettivi sulla creazione di energia da fusione, bisognerà attendere le sperimentazioni condotte sul reattore di generazione successiva, DEMO (DEMOnstration power plant), di cui ancora non è noto il sito di costruzione, al fine di comprendere se la fusione nucleare sia in grado di produrre energia che possa essere utilizzata nella rete elettrica. Il cammino che si prospetta, dunque, è ancora lungo, e richiederà per lo sviluppo di DEMO un forte contributo dell’industria, nella prospettiva di produrre energia da fusione per un uso commerciale, che nelle previsioni attuali si ritiene potrebbe essere fruibile da tutti dal 2050 [5].

[1] https://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:12012E/TXT:it:PDF

[2] https://ec.europa.eu/info/publications/220202-sustainable-finance-taxonomy-complementary-climate-delegated-act_en

[3] Per approfondire: https://www.enea.it/it/seguici/le-parole-dellenergia/fissione-nucleare/approfondimenti/#8

[4] Per approfondire: https://www.fsn-fusphy.enea.it/index.php/it/il-progetto-dtt?jjj=1657104499284

[5] https://ec.europa.eu/info/news/focus-fusion-power-and-iter-project-2021-mai-17_it