di Davide Maggi

È noto: Papa Francesco, nella sua lettera Enciclica Fratelli tutti (2020), riporta al centro del dibattito culturale il significato e il senso dell’economia, parola che cita quindici volte. Attraverso uno stile diretto e senza troppe circonlocuzioni, Francesco desidera abituarci a guardare la realtà così come si presenta, in modo onesto e disincantato. Dal testo emerge la sua preoccupazione per la fase economica e sociale nella quale stiamo vivendo. La critica ogni volta che produce “scarti”. È come se volesse risvegliare gli animi delle persone da un torpore che li avvolge quando viene meno lo spirito critico e la voglia di riscatto per soddisfare i loro bisogni.

Partendo da questa situazione allarmante, ci dice che un mondo diverso e migliore è ancora possibile. A una condizione: occorre superare un modello economico ormai imploso: «Il mondo avanzava implacabilmente verso un’economia che, utilizzando i progressi tecnologici, cercava di ridurre i “costi umani”, e qualcuno pretendeva di farci credere che bastava la libertà di mercato perché tutto si potesse considerare sicuro. Ma il colpo duro e inaspettato di questa pandemia fuori controllo ha obbligato per forza a pensare agli esseri umani, a tutti, più che al beneficio di alcuni» (n.33). Per ricostruire, Francesco non ha esitato a convocare i giovani. Lo ha fatto ad Assisi, il luogo simbolo della cristianità e dell’amore operoso, per invitarli a progettare un nuovo paradigma economico e sociale. Sono infatti le giovani generazioni la linfa per poter condividere il «sogno di un nuovo umanesimo rispondente alle attese dell’uomo e al disegno di Dio» dice papa Francesco. Per questo ha scelto di scommettere insieme a loro, per rivolgersi all’umanità intera, su un percorso di vita responsabile secondo il principio del prendersi cura gli uni degli altri secondo il noto slogan I care.

Il pensiero economico e sociale del Papa si nutre di un modello antropologico preciso sul quale costruisce il suo nuovo paradigma. L’economia è una scienza sociale, una conoscenza che nasce e si sviluppa avendo al suo centro la persona umana. È la persona che dà significato al tema economico: senza l’umano, l’economia non esisterebbe. Lo scrive così: «Da una parte è indispensabile una politica economica attiva, orientata a “promuovere un’economia che favorisca la diversificazione produttiva e la creatività imprenditoriale”, perché sia possibile aumentare i posti di lavoro invece di ridurli. La speculazione finanziaria con il guadagno facile come scopo fondamentale continua a fare strage. D’altra parte, “senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica. Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare”» (FT n. 168).

La domanda da porsi allora diventa: quali sono i tratti individuali e sociali della persona umana? Quale idea di persona nutre l’economia? Sono queste alcune domande fondamentali che restituiscono il senso alle leggi economiche che vengono formulate per guidare le azioni delle persone impegnate nell’ambito economico, politico e sociale. Sul tema due posizioni filosofiche ne hanno influenzato l’approccio. La prima ritiene la persona umana cooperante per natura, ogni uomo è amico dell’altro uomo (homo homini natura amicus), secondo la linea di pensiero aristotelico e, in generale, dei filosofi antichi e medievali, tra i quali anche San Tommaso d’Aquino. La seconda, al contrario, parte dal presupposto che ogni uomo è un lupo per l’altro uomo (homo homini lupus). Il filosofo inglese Thomas Hobbes considerava la persona umana come un essere malvagio, incapace di cooperare volontariamente, se non per un principio di convenienza. Solo grazie a un “contratto sociale” le persone smettono di farsi guerra per convivere. Papa Francesco ribadisce invece che «siamo fatti per l’amore» (FT n. 88). Certo, la condizione è quella di un ambiente nel quale l’animo umano cresca realizzando naturalmente azioni e relazionali positive. Il contesto culturale nel quale le persone vengono educate può, infatti, trasformare l’animo umano in un lupo famelico pronto a vedere nel “tu” il nemico da abbattere. Questa premessa serve per capire come il tema antropologico sia per Francesco la priorità da anteporre a qualunque paradigma economico e sociale per premettere il soggetto che agisce, le sue caratteristiche, le sue aspettative, il modo con il quale interpreta la relazione umana.

Per questo motivo, il tema educativo è la pietra angolare che sostiene la sua visione del sistema economico e sociale. Non si può costruire un paradigma economico senza un’educazione della persona capace di comprendere i valori di fondo che caratterizzano la nostra umanità. È l’investimento più importante che una comunità matura e consapevole può realizzare; un investimento che, se ben condotto, è in grado di restituire “settanta volte sette”. Parlando dei valori della solidarietà il Papa, al n. 114 dell’enciclica, richiama la responsabilità della famiglia, della scuola e delle istituzioni culturali come ambiti privilegiati nei quali innestare processi educativi e formativi con i giovani. Il suo richiamo ha un significato preciso: è consapevole che nel mondo nuovo le sfide globali si presentano con caratteristiche originali ed inedite.

Il Papa invita tutte le persone ad investire sulla formazione della persona per affrontare i grandi temi che affliggono l’attuale società e restituire all’umanità i diritti fondamentali che stanno alla base di ogni buona comunità. Senza il riconoscimento di questi diritti lo sviluppo sociale ed economico di un Paese è messo in serio pericolo per essere condizionato «da visioni antropologiche riduttive e da un modello economico fondato sul profitto, che non esita a sfruttare, a scartare e perfino ad uccidere l’uomo» (FT, 22). È bene ribadirlo: Papa Francesco muove alcune critiche radicali al sistema economico, politico, sociale dominante, sfida il pensiero unico della globalizzazione non solo economico e finanziario ma anche culturale. «“Aprirsi al mondo” è un’espressione che oggi è stata fatta propria dall’economia e dalla finanza. Si riferisce esclusivamente all’apertura agli interessi stranieri o alla libertà dei poteri economici di investire senza vincoli né complicazioni in tutti i Paesi. I conflitti locali e il disinteresse per il bene comune vengono strumentalizzati dall’economia globale per imporre un modello culturale unico. Tale cultura unifica il mondo ma divide le persone e le nazioni, perché «la società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli» (FT n.12).

Il pensiero unico, dunque, sembra unificare il mondo ma in realtà divide le persone, le nazioni e i continenti. In questo contesto anche i mercati, nati come luoghi di civilizzazione e sviluppo, diventano ambiti atti a soddisfare bisogni di consumo senza però l’incontro con l’altro in modo costruttivo e cooperativo. Per cercare di uscire da questa situazione, può essere opportuno prendere le mosse dal quadro (frame) che caratterizza la postmodernità, termine coniato dal filosofo francese Jean-François Lyotard nel famoso libro La condizione postmoderna del 1979. È il volume che segna la fine della tradizione storico-filosofica del pensiero classico che aveva caratterizzato la storia del Novecento. Non più quindi sistemi filosofici e narrazioni basate sull’eredità dell’Illuminismo e sui grandi sistemi, in primo luogo l’hegelismo e il marxismo, ma una comprensione piena di un modello di pensiero che identifica una nuova idea di modernità, basata essenzialmente sulla rottura con il passato, il “postmodernismo”.

Questa espressione del filosofo francese, spesso utilizzata nel cambiamento epocale di paradigma, identifica un fattore centrale di trasformazione: il sorgere e il mutare di senso dell’apparato di pensiero tecno-scientifico, e con esso l’avanzare impetuoso delle nuove tecnologie, in grado di diventare vere e proprie protesi di linguaggio, cioè modi del pensiero dalla struttura innovativa. Lo sviluppo del pensiero tecno-scientifico e la conseguente rivoluzione info-telematica, presenti nella narrazione della Fratelli Tutti, possono essere interpretati attraverso tre dimensioni che, in sintesi, caratterizzano la postmodernità: la complessità dei sistemi sociali ed economici; la globalizzazione dei processi economici, sociali e culturali; l’orizzontalità dei sistemi organizzativi.

Il primo termine – complessità – è spiegato da Papa Francesco con l’espressione “tutto è connesso”. Per questo motivo, deve essere affrontata nel suo insieme, in quanto si caratterizza per il fatto che le singole parti sono avvinte da relazioni che, per loro natura, non possono sciogliersi. La complessità, tuttavia, non deve incutere timore; può essere affrontata studiando i problemi secondo quanto propone la nuova “scienza della complessità”. Pertanto, richiede conoscenza e adeguata preparazione. Senza queste si rischia di minare alla base ogni tentativo di soluzione. A tal proposito, Francesco osserva: «Se tutto è connesso, è difficile pensare che questo disastro mondiale non sia in rapporto con il nostro modo di porci rispetto alla realtà, pretendendo di essere padroni assoluti della propria vita e di tutto ciò che esiste» (FT, 34).

La globalizzazione è un fenomeno che appare in tutta la sua evidenza con la caduta del Muro di Berlino del 1989; questo momento, tuttavia, rappresenta solo il punto di fine (e di inizio) di un lungo processo che gli storici economici datano nel lontano 1975. In quell’anno i leader di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia, Giappone e Germania Ovest si riunirono nel castello di Rambouillet, nel Nord della Francia, per formare l’alleanza che, con l’ingresso del Canada nell’anno successivo, sarebbe diventata il G7. Rappresenta una precisa strategia geopolitica con la quale le potenze occidentali hanno inteso condizionare il resto del mondo (e, in particolare, per ostacolare l’avanzata delle politiche di sviluppo promosse dai paesi del Sud del mondo) attraverso una sorta di neocolonialismo; fonda il proprio “credo” sull’ideologia mercantile, secondo la quale sarebbe la sola in grado di generare nel mondo il progresso, la risoluzione delle disuguaglianze, la prosperità e la pace. In realtà, dietro questa ideologia, si nascondono interessi e poteri economici forti che desiderano muoversi nel pianeta senza vincoli di sorta, trasformando le persone in semplici consumatori. «L’avanzare di questo globalismo favorisce normalmente l’identità dei più forti che proteggono sé stessi, ma cerca di dissolvere le identità delle regioni più deboli e povere, rendendole più vulnerabili e dipendenti» (FT, 12).

L’orizzontalità invece è rappresentata dalle reti, la tecnologia, le relazioni, lo sviluppo che privilegia la rete quale modello di connessione. Sul punto il papa osserva: «Malgrado si sia iper-connessi, si è verificata una frammentazione che ha reso più difficile risolvere i problemi che ci toccano tutti. Se qualcuno pensa che si trattasse solo di far funzionare meglio quello che già facevamo, o che l’unico messaggio sia che dobbiamo migliorare i sistemi e le regole già esistenti, sta negando la realtà» (FT, 7). Il quadro tratteggiato mette in luce come ci sia stato un ribaltamento tra il ruolo, egemone, dell’economia rispetto al ruolo, fondamentale, della politica. In pratica si è rovesciato il rapporto tra i fini, che dovrebbero essere individuati e perseguiti dalla politica, con i mezzi, ambito privilegiato dell’economia. Nel contesto che si è voluto creare, complice la stagione neoliberista guidata, tra gli altri, da Margaret Thatcher e Ronald Reagan, si è privilegiato il mercato libero da ogni vincolo (deregulation). In questo modo gli attori economici hanno potuto estrarre più valore possibile nelle varie parti del mondo per aumentare a dismisura i profitti avendo la complicità della politica che ha fornito loro i mezzi per agire.

Per questo Francesco richiama la politica al suo ruolo nobile di indirizzo: «Mi permetto di ribadire che “la politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia”. Benché si debba respingere il cattivo uso del potere, la corruzione, la mancanza di rispetto delle leggi e l’inefficienza, “non si può giustificare un’economia senza politica, che sarebbe incapace di propiziare un’altra logica in grado di governare i vari aspetti della crisi attuale”. Al contrario, “abbiamo bisogno di una politica che pensi con una visione ampia, e che porti avanti un nuovo approccio integrale, includendo in un dialogo interdisciplinare i diversi aspetti della crisi”. Penso a “una sana politica, capace di riformare le istituzioni, coordinarle e dotarle di buone pratiche, che permettano di superare pressioni e inerzie viziose”. Non si può chiedere ciò all’economia, né si può accettare che questa assuma il potere reale dello Stato» (FT n. 177). Di quale politica abbiamo bisogno? Con quali contenuti economici? Con quale respiro internazionale? Quale le relazioni di governance tra i diversi stati? Due opposte indicazioni che derivano dalla filosofia politica e che hanno anche implicazioni economiche sono rappresentate, da un lato, dall’approccio democratico e, dall’altro, da quello liberale (o neoliberale).

Il primo approccio si sviluppa dell’ambito della filosofia kantiana, successivamente recuperata dal pensiero di Hans Kelsen, David Held e Jürgen Habermas. Si tratta di riconoscere la necessità di creare strutture sovranazionali con potere giuridico autonomo in grado di indirizzare, attraverso i policy-makers, le decisioni comuni. Una esperienza in questo senso può essere rappresentata dall’Europa; un progetto complesso da realizzare, soprattutto dal lato politico, ma che in questo momento di difficoltà sta dimostrando una possibile nuova stagione foriera di novità. Prima dell’evento pandemico, l’Europa si presentava come l’ambito territoriale economicamente più integrato di qualsiasi altra regione al mondo, ma con una struttura di governance non ancora compiuta.  Prova ne è il fatto che, quando le economie europee entravano in crisi, le risposte erano prevalentemente nazionali. Le attuali prese di posizione, al netto delle diverse anime che ancora campeggiano nel dibattito tra gli Stati europei, stanno mettendo in luce un aspetto finora inedito dell’Unione. Senza lasciarsi trascinare da facili entusiasmi, sembra che si stia formando una convinzione: in assenza di interventi delle istituzioni europee, i singoli Stati non hanno la forza di affrontare l’attuale crisi pandemica che, come ogni epidemia, concorre ad accentuare le disuguaglianze tra ceti sociali e territori all’interno dei Paesi. Questo dimostra come la risposta efficace e credibile ai costi della globalizzazione non può venire da pulsioni di protezionismo e sovranismo ma da una rinnovata capacità dei sistemi di trovare soluzioni condivise.

Sul versante opposto, l’approccio liberale si ispira alle teorie del libero scambio secondo la nota dottrina economica sviluppata dapprima da Adam Smith (attraverso la famosa invisible hand) e successivamente da altri economisti di scuola liberale. Nell’ambito di questa impostazione, la globalizzazione rappresenta un sistema in grado di autoregolarsi e di contribuire a migliorare le condizioni di vita di strati sempre più ampi di popolazione a patto di saper sfruttare le potenzialità offerte da questo sistema. Diversamente dall’approccio democratico, quello liberale considera come ostacolo qualunque istituzione sovranazionale in quanto non permetterebbe di accedere liberamente ai vantaggi commerciali e finanziari creati dal libero mercato. Tra queste due posizioni antitetiche, quale potrebbe essere una risposta in grado di armonizzarle?

Una ipotesi possibile potrebbe essere rappresentata da un modello, riveduto corretto e attualizzato, che percorra le orme di Bretton Woods. Seguendo il pensiero di un noto economista di Princeton che ha lavorato molto sui temi della globalizzazione, sviluppo economico e politica economica (Dani Rodrik, La globalizzazione intelligente, Laterza, 2015), la soluzione potrebbe trovarsi in un modello di liberalismo economico i cui effetti negativi vengono attenuati dall’intervento delle istituzioni pubbliche e della società civile attraverso la creazione di vari sistemi di welfare, secondo una logica di sussidiarietà circolare che metta la centro politiche inclusive. Significa accettare non un’iperglobalizzazione istituzionale ma un insieme di regioni geografiche diverse le cui interazioni siamo definite da regole semplici, trasparenti e di buon senso. Questa strada, ad evidenza, sembra essere quella privilegiata anche da Mario Draghi quando, nel discorso di apertura del G20 che si è tenuto a Roma a fine ottobre 2021, richiama la necessità di perseguire politiche multilaterali.

Da quanto detto si comprende come sia sempre più necessario prefigurare un paradigma economico alternativo a quello attuale al quale chiedere conto non solo dell’efficienza dei suoi risultati, ma pure della capacità di includere, almeno tendenzialmente, tutte le persone e di avvalorarle nelle loro diverse dimensioni. In un periodo di critica piuttosto diffusa della globalizzazione economica vale la pena ricordare che l’aumento dell’interconnessione economica tra Stati ha portato alcuni benefici in termini di crescita; tuttavia non si può trascurare il fatto che le potenzialità insite in questo modello siano troppo spesso utilizzate per generare disuguaglianze piuttosto che per favorire la convergenza dei sentieri di sviluppo; più per incrementare livelli di utilità che per allargare gli spazi di felicità delle persone.

Più di un secolo fa il grande sociologo tedesco Max Weber sosteneva che l’economia non è una macchina, ma una costruzione sociale che traduce in consistenza materiale l’evoluzione spirituale e culturale di un popolo.  Il cambiamento di rotta può avvenire solo se sospinto anche da un impulso in grado di orientare i comportamenti umani verso gli obiettivi individuati. Ponendo mente alla storia delle civiltà, i grandi cambiamenti hanno avuto alla loro base forti impulsi culturali e spirituali che hanno permesso il cambio di paradigma. In assenza di questa spinta, il rischio è quello che tutto rimanga confinato nell’alveo dei buoni principi senza trasformarsi in vero agente di cambiamento. Dialogo, conoscenza e comprensione diventano dunque enzimi fondamentali; solo «un’economia integrata in un progetto politico, sociale, culturale e popolare che tenda al bene comune può «aprire la strada a opportunità differenti, che non implicano di fermare la creatività umana e il suo sogno di progresso, ma piuttosto di incanalare tale energia in modo nuovo» (FT n.123).