di Ciro Cafiero
È noto a tutti. La pandemia ha riscritto una nuova fisionomia nel mondo del lavoro. Ed è anche cambiato il modo in cui le persone si realizzano attraverso il lavoro, richiamando così a un “prima” e un “dopo” che nella storia ha caratterizzato le rivoluzioni industriali epocali. In questo quadro, possono essere identificati tre grandi cambiamenti in atto su cui occorre riflettere.
Anzitutto l’alleanza tra capitale e lavoro ha preso il posto del conflitto, tipico dell’era capitalista. Lo smart working ha dimostrato, in questi due anni, che le imprese sono pronte a cedere margini di fiducia verso i lavoratori e i lavoratori a responsabilizzarsi verso obiettivi di produttività. Con risultati in termini di profitto per le prime e di benessere per i secondi. Il Covid ha svelato il valore autentico dell’impresa, quello di “intrapresa” tra forze diverse per raggiungere un obiettivo comune. Le antiche spedizioni marittime ne sono l’esempio: alcuni uomini investivano in esse parte del loro capitale e altri offrivano la loro forza fisica per la conquista di mercati lontani. È solo dopo la Rivoluzione francese del 1789, con la vittoria della nuova borghesia sul sistema feudale, che il “capitale”, di per sé buono, si è trasformato in quel “capitalismo cattivo” che ha raggiunto il suo apice agli inizi del Novecento, pretendendo di distribuire il potere e il controllo della società e del sistema economico-produttivo tra pochi a discapito di molti.
Secondo. I lavoratori sono alla ricerca di occupazioni in grado di garantire un clima lavorativo sereno, una conciliazione dei tempi di lavoro con quelli di vita privata (work-life balance) e in cui le perfomance non snaturino il “senso della vita”, che va al di là del lavoro stesso. Lo riporta anche la ricerca dell’Associazione Italiana Direzione Personale (Aidp), riprendendo i dati di Banca d’Italia, secondo cui nel 2021, si sono dimesse 777 mila persone per insoddisfazione lavorativa. Si tratta di 40 mila lavoratori in più rispetto al 2019, il 70% dei quali con età compresa tra i 25 e i 36 anni. Per i giovani non è più solo una questione legata al salario, facendo quindi tramontare l’illusione di esorcizzare la fine della vita con l’accumulo di denaro, contro cui si scagliava il mistico persiano Ad-din ‘Attar sin dal XII secolo. Prevale la consapevolezza del valore del tempo e della relazione con l’altro, anche grazie alle esperienze di dolore e di morte toccati con mano a causa della pandemia. Vengono alla mente le parole di Martin Buber: “La vita umana non può essere ristretta nel solo perimetro dei verbi transitivi: ciò che io faccio, ciò che io acquisto, ciò che io mangio e così via. Abbiamo bisogno di un Tu”.
Terzo cambiamento. Le diseguaglianze si sono ampliate in molti casi a discapito di quei lavoratori che hanno permesso il proseguimento delle attività nei settori considerati essenziali. Tra questi vi sono i riders, o i blue collars, che a fronte di un aumento dei carichi di lavoro non hanno però visto migliorate le loro condizioni occupazionali. È accaduto anche negli Stati Uniti, come dimostra il caso dei lavoratori della Kellogg’s che, per i troppi straordinari richiesti, hanno organizzato forti mobilitazioni.
Questa nuova fisionomia del lavoro ci chiama ad un importante discernimento. È l’occasione preziosa che la pandemia ci offre. Dobbiamo dimostrarci capaci di rendere strutturali i cambiamenti buoni e correggere quelli cattivi. È per questo che riteniamo che un nuovo Testo unico debba permettere a imprese, lavoratori e sindacati, nel segno di una nuova alleanza, di perseguire obiettivi comuni secondo il modello dell’articolo 46 della Costituzione: ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende. Il welfare deve essere cucito a misura delle esigenze delle persone e le modalità di lavoro flessibili, come lo smart working, devono assecondare la domanda di migliore qualità dei contesti e delle condizioni occupazionali. Non da ultimo, occorre combattere le diseguaglianze attraverso la promozione di diritti basilari comuni, politiche meritocratiche e di parità di genere.
Occorre uno sforzo corale per elevare il lavoro da una dimensione economicistica ad una dimensione sociale, per far sì che germogli la buona occupazione. Quella a cui guardano la Costituzione, la Dottrina Sociale della Chiesa e lo stesso Papa Francesco quando definisce il lavoro nell’Evangelii Gaudium come libero, partecipativo, creativo e solidale. È questo il tempo di politiche di responsabilità sociale, le c.d. “Esg” (Environmental, Social, Governance) che nascono dall’iniziativa dello Stato e delle parti sociali. Con un’inversione di tendenza rispetto a quelle politiche troppe liberiste che, dagli anni 80 del secolo scorso, avevano promosso la competitività delle imprese, portando però a generare benessere per pochi ricchi e malessere per i molti poveri.
Anche se potrà suonare come un ossimoro, è tempo che il capitalismo indossi una veste sociale. Con questa prospettiva, lo stesso Doug McMillon, a capo del colosso statunitense Walmart, ha dichiarato al The Economist del 15 gennaio scorso che occorre “reinventare” il capitalismo. Il lavoro è una questione sociale. Ma fa eccezione all’assunto di Leo Longanesi secondo cui le questioni sociali “passano di moda e si dimenticano”. Il motivo è semplice. Il lavoro è parte di noi e nessuno può passare di moda. Il lavoro ci lascia fiorire nella società. E se cambia, ci cambia.