di Cesare Morgante*
 
 
Nelle ultime settimane mi hanno scritto tantissimi amici: dalla Spagna, dalle Filippine, dagli Stati Uniti e da altri luoghi per informarsi delle condizioni del nostro paese.
In particolare, ieri mi ha scritto Joseph, dal Ruanda, per avere mie notizie e conoscere le misure adottate in Italia a seguito dell’emergenza coronavirus.
Mi ha sorpreso che una persona proveniente dal terzo mondo potesse preoccuparsi per la nostra epidemia e quindi, incuriosito, ho chiesto quali fossero le sensazioni dall’altra parte del Mediterraneo, in un continente che negli anni, anche quelli più recenti, ha affrontato patogeni ad altissimo tasso di letalità.
Con una certa superficialità, devo ammettere, ero convinto che loro potessero considerare questa nostra situazione un po’ come una paranoia di noi occidentali. In particolare, il Ruanda meno di un anno fa si preparava ad affrontare il rischio di un’epidemia di Ebola proveniente dal Congo; lo stesso paese ha lottato e continua a lottare contro il colera e tanti altri agenti infettivi, non più presenti alle nostre latitudini.
Con mio grande stupore, mi ha raccontato che anche il suo paese ha adottato misure di “rarefazione sociale” come la chiusura di scuole e chiese, incoraggiato lo smart working e via dicendo. Mi ha inoltre ricordato che si tratta di un agente infettivo diverso dai soliti a cui loro sono “abituati”, una malattia che viaggia velocissima, anche in Africa, dove molto spesso i focolai epidemici rimangono isolati, e in qualche modo tendono ad auto esaurirsi.
 
Un altro problema molto interessante che si stanno trovando ad affrontare in Ruanda, è quello legato a informazioni false e non basate sull’evidenza scientifica riguardo questa patologia: problema che, come sappiamo, non risparmia il nostro paese. Per non essere poi io causa di misinformazione, o peggio ancora di disinformazione, ho pensato che fosse quindi il momento di ripassare qualche concetto di epidemiologia e di malattie infettive.
La capacità di contagiare di un agente patogeno, in un ambiente dove i soggetti sono vulnerabili (ovvero non sono vaccinati o non presentano anticorpi contro quell’agente), viene chiamata “Tasso netto di riproduzione” e si indica con la sigla R0 (si legge R naught); un R0 pari a uno indica che una persona infetta è in grado di contagiare mediamente solo un’altra persona, R0 pari a due due persone e via dicendo.
È evidente che tanto più alto è questo valore tanto maggiore è il rischio che una malattia da circoscritta si trasformi in un’epidemia vera e propria.
RO si calcola tramite una formula matematica, che tiene in considerazione il periodo di contagiosità della malattia, il numero di contatti che ha una persona infetta, la modalità di trasmissione della patologia e la probabilità di contagiare un altro sogetto.
Quindi tanto più lungo è il periodo di contagiosità tanto maggiore è il rischio che l’epidemia si sviluppi e lo stesso avviene per quel che riguarda il numero di contatti: per esempio, un eremita che non ha contatti con il mondo esterno non sarà ovviamente in grado di contagiare nessuno.
Per quanto riguarda la modalità di trasmissione, le infezioni che si diffondono per via aerea, hanno un potenziale di contagio molto più alto rispetto a quelle trasmesse per via oro fecale. Va ricordato, come avevamo detto prima, che questa formula è valida in popolazioni vulnerabili, in quanto soggetti vaccinati possono trasformarsi in barriera, rallentando l’effetto “Snowball”, ovvero quello che succede quando una manciata di neve staccandosi dalla montagna va via via aumentando le proprie dimensioni dando vita ad una vera e propria valanga.
 
Il “tasso netto di riproduzione” ci spiega, per esempio, il motivo di alcune misure che stiamo mettendo in atto nei confronti del coronavirus: non potendo agire sul periodo di contagiosità, almeno per ora, in quanto teoricamente se avessimo dei farmaci per curare i pazienti malati potremmo anche essere in grado di ridurre il periodo in cui questi sono contagiosi per gli altri, dobbiamo agire sul numero di contatti che ciascun soggetto ha, e per questa ragione sono importanti le misure di isolamento. Ed è altrettanto importante ridurre le trasmissioni per via aerea e tramite contatto, questo spiega l’utilità di mascherine e del lavaggio delle mani.
Se riuscissimo a ridurre il numero di contatti e a mantenere sotto controllo la via di trasmissione, avremmo un R0 più basso e quindi una minore probabilità di propagare la malattia.
 
Inoltre, nella società occidentale siamo sempre più abituati a vedere la malattia come qualcosa di privato, qualcosa che riguarda il singolo malato, il quale è responsabile dei suoi mali o semplicemente è sfortunato. La situazione che stiamo vivendo sposta invece la responsabilità dal singolo alla collettività e ci porta a pensare che tutti siamo responsabili per tutti. Mi piacerebbe consigliare, per chi volesse approfondire temi di salute preventiva e comprendere l’importanza di misure volte all’intera popolazione, un libro scritto da uno dei più importanti epidemiologi del secolo scorso: “The strategy of preventive medicine” di Geoffrey Rose.
 
Avevo già accennato che uno dei problemi in Africa è quello legato alle fake news e oserei dire che l’epidemia di fake news non è poi cosi diversa da quella da coronavirus. Se ripensiamo all’indice che abbiamo visto prima, ci accorgiamo che gli stessi parametri potrebbero essere applicati anche per quel che riguarda la “contagiosità” delle fake news.
I parametri che abbiamo visto erano la modalità di trasmissione, la durata del periodo di contagio, e il numero di contatti che un soggetto aveva. Per quanto riguarda il primo, una notizia diffusa tramite un social network avrà sicuramente più probabilità di “contagiare” qualcun altro rispetto ad una notizia diffusa a voce, o tramite giornali. Tanto più tempo una notizia rimane in giro, tanto più ci convinciamo che essa sia fondata. E in ultimo, una notizia condivisa da una persona con mille amici su Facebook, raggiungerà molte più persone di una notizia diffusa da una persona che di amici ne ha solo duecento.
 
Potrebbe sembrare assurdo o quanto meno azzardato mettere queste due epidemie sullo stesso piano. In realtà, se ci pensiamo bene, uno dei più famosi proverbi recita “Uccide più la penna della spada”, oggi forse il ruolo della penna è stato sostituito dai social. E spesso le fake news uccidono per davvero. Di qualche giorno fa è la notizia che in Iran, nella provincia di Khuzestan, almeno 44 persone sono morte per avere ingerito alcool di contrabbando: nei giorni precedenti si era diffusa l’idea che l’alcool potesse essere un mezzo di prevenzione e una terapia nei confronti del coronavirus, nello stesso periodo sempre nella provincia di Khuzestan le morti accertate da covid sono state solo 18.
 
Anche qui in Italia, come sappiamo, non siamo immuni. Un caso che mi ha incuriosito molto è stato quello legato agli ace-inibitori. Uno dei farmaci più utilizzati per il trattamento dello scompenso cardiaco e dell’ipertensione arteriosa. Secondo un rapporto dell’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) del 2018 gli ace-inibitori sono utilizzati non in associazione con altri farmaci dal quasi il 19% della popolazione geriatrica e dal 14 % in associazione. Sono farmaci per i quali studi scientifici hanno dimostrato un’efficacia nel modificare l’outcome di diverse condizioni patologiche, quindi in grado di ridurne la mortalità.
 
Da tempo si sa che il Covid per entrare all’interno dei polmoni si lega ad una proteina chiamata ace2. Vista la maggiore severità della patologia nella popolazione anziana, e visto che sono proprio gli anziani a fare maggior utilizzo di Ace inibitori, diversi scienziati hanno proposto che possa esservi una relazione tra le due condizioni.
Un paio di giorni fa, su diversi gruppi whatsapp, girava un messaggio, che trasformava questa ipotesi quasi in una certezza, traendo in inganno perfino professionisti della sanità. Una persona in uno di questi gruppi diceva che il cardiologo le aveva cambiato l’ace inibitore per un altro farmaco e ora ne capiva il motivo. E il suo commento è stato “Non sapendo se sia vero, meglio evitare”.
Ieri però un’amica specializzanda al San Raffaele mi ha girato una comunicazione dell’ospedale, tratta da una nota dell’AIFA, che suggeriva ai medici, viste le evidenze attuali, di non modificare la terapia con Ace inibitori o con antagonisti del recettore dell’angiotensina (un’altra classe di farmaci il cui meccanismo di azione è simile a quello degli ace inibitori).
La diffusione di queste informazioni potrebbe spingere una popolazione non preparata in maniera adeguataa, a causa della grande paura del coronavirus, a decidere di sospendere farmaci salvavita come gli Ace inibitori senza, al momento attuale, alcuna motivazione scientifica.
 
Riguardo a questa notizia, ho anche voluto fare una piccola ricerca, su Google Trends (uno strumento di Google che permette di vedere quanto spesso venga ricercata una determinata parola) per valutare l’entità di quanto potesse essersi diffusa quella informazione. Ho deciso di comparare la ricerca della parola Ace inibitore con la ricerca della parola beta bloccante (un’altra classe di farmaci, tra le più utilizzate nel controllo dell’ipertensione). Questo è il grafico che ne viene fuori.
 
 

Google Trends

 
 
 
Dal nove marzo quando si è iniziata a diffondere la notizia sulla pericolosità degli ace- inibitori la sua ricerca è schizzata alle stelle, mentre il trend per la parola betabloccante che nei giorni precedenti era ricercata leggermente più frequentemente rispetto alla parola ace-inibitori è rimasta stabile. Questo è indice del grado di diffusione della notizia che, come detto, pur potendo avere un fondo di verità, rischia di essere dannosa se raggiunge orecchie di persone poco preparate.
 
Vorrei concludere con una domanda “Che fare?”.
“Che fare?” è anche il titolo del giornale che scriveranno i Cafoni nel libro “Fontamara” di Ignazio Silone, dopo il sacrificio del protagonista Berardo Viola, una volta resisi conto che siamo tutti responsabili per gli altri.
E’ interessante che loro come risposta al fascismo decidono di scrivere un giornale, ovvero di informare la gente.
Quindi la prima risposta alla domanda “Che fare?” è cercare di non essere noi fonte di informazioni false, non fungere da piattaforma di rimbalzo per queste notizie.
Il secondo invito è a renderci conto della nostra importanza all’interno della salute pubblica è quindi fare un grande sacrificio rimanendo chiusi in casa e riducendo al minimo i contatti.
Dovremmo iniziare a pensare al futuro, dovremmo trovare delle fonti in grado di passare informazioni vere da diffondere, dei soggetti o delle piattaforme (che in alcuni casi già esistono) che possano aiutarci ad orientarci nella marea di informazioni che ci raggiungono ogni giorno.
Infine, non dobbiamo dimenticarci che le malattie non colpiscono solo gli individui ma la società nel suo insieme.
 
*studente di Medicina
cesare.morgante@gmail.com