di Cesare Morgante

Non è facile abituarsi alla morte di un paziente o di una persona cara ed è quasi impossibile abituarsi alla sofferenza e al dolore. When breaths becomes air di Paul Kalanithi è uno dei testi che mi ha accompagnato durante il mio percorso di formazione alla professione medica. Il libro racconta l’esperienza di un giovane ma già affermato neurochirurgo, che diventa paziente perché affetto da una malattia neoplastica in stato avanzato. In un articolo apparso sul New York Times nel 2014 Kalanithi scriveva: «In qualche modo, […], la certezza della morte era più semplice dell’incertezza della vita».

Il mistero della sofferenza ha da sempre interrogato l’uomo: nella Bibbia viene affrontato in diverse occasioni sia nell’Antico Testamento, ad esempio nel libro di Giobbe, sia nel Nuovo, tanto da essere definito da Giovanni Paolo II come «il Vangelo della Sofferenza». Spesso di fronte alla sofferenza cerchiamo di identificare una causa, ma raramente siamo in grado di trovare una risposta. Abbiamo, però, l’obbligo di trattare il dolore e di evitare tutte le sofferenze non necessarie. Sulla gestione del dolore, come mostrato dalla lettera apostolica Salvifici Doloris, lo stesso Vangelo può fare da guida. La parabola del buon samaritano ci mostra tre momenti fondamentali nella cura della persona: “fermarsi”, “farsi prossimi” e, infine, fornire anche un aiuto materiale.

L’essere medico, infatti, non si limita al trattamento di patologie ma è una vocazione che si estende alla cura globale delle persone. Sempre più spesso al medico non è richiesta la “formula magica” in grado di curare tutte le malattie, ma sono richieste piuttosto delle risposte alle incertezze. La Salute, tutelata dall’articolo 32 della nostra Costituzione, è una salute olistica che comprende il benessere fisico, mentale e sociale e non solo la semplice assenza di malattia. È necessario, quindi, che l’attenzione medica non sia esclusivamente indirizzata alla cura di una patologia, ma sia rivolta alla cura della persona nella sua totalità e quindi anche alla sofferenza in tutte le sue forme. Quando si valuta un trattamento è necessario inserire nell’equazione, non solo i risultati in termini di sopravvivenza e parametri farmaco economici, ma anche andare a valutare l’effetto sulla qualità della vita.

Nel disegnare la nostra sanità e nella formazione del personale sanitario è estremamente importante porre attenzione alle tematiche del fine vita e dell’accompagnamento del malato terminale. La legislazione italiana è tra le più avanzate riguardo il trattamento del dolore e l’applicazione delle cure palliative. In particolare, grazie alla legge 38 del 2010, nella quale viene sancito il diritto del malato accedere alle cure palliative e alla terapia del dolore. Tra i punti salienti di questa legge vi è la promozione di campagne di informazione volte all’opinione pubblica e campagne di formazione per il personale sanitario finalizzate a superare i pregiudizi riguardo l’utilizzo di farmaci per la terapia del dolore (per esempio gli oppiacei). Inoltre, viene promossa la creazione di reti capillari nel territorio per offrire sollievo alle persone affette da malattie terminali.

Nello scorso maggio, durante l’incontro di Comunità di Connessioni con la presidente del Bambino Gesù Mariella Enoc, è stato affrontato il tema della povertà sanitaria e dell’importanza che il tempo di cura sia soprattutto tempo di relazione. La presidente Enoc in un’intervista per il nostro sito ci raccontava come «i nostri ospedali sono ospedali senza dolore, i pazienti, anche quelli oncologici gravi, non muoiono fra le sofferenze, ma li si aiuta affinché la morte sia più serena, più dolce, più accompagnata».
Vi è però una grande disomogeneità nella concretizzazione della legge 38 sia a livello territoriale che a livello ospedaliero. Nel rapporto del ministero della Salute sull’applicazione della legge per gli anni che vanno dal 2015-2017, mostra che in 14 regioni d’Italia vi è una carenza di posti letto negli Hospice rispetto ai valori ideali. Tra le altre criticità viene anche evidenziato come le prestazioni domiciliari erogate dal medico palliativista siano ben al di sotto del fabbisogno programmato.

In una società in cui le tematiche relative al fine vita sono spesso sulle prime pagine dei giornali è prioritario fornire assistenza all’ “unità sofferente”, composta non solo dal malato, ma anche dalla famiglia e da tutti coloro che gli stanno vicino. La scelta di ricorrere all’eutanasia o al suicidio assistito non potrà mai essere davvero libera se prima non viene garantito il diritto del malato all’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore. Vi è, però, la presenza di tante associazioni di volontariato che si occupano di fornire assistenza ai malati oncologici ed ai malati terminali. In particolare, vorrei citare il progetto della Fondazione nazionale Gigi Ghirotti “Offriamogli un bagno caldo”: permette, tramite l’utilizzo di macchinari particolari, di eseguire una doccia direttamente al letto del paziente dando così sollievo e una preziosa apparenza di normalità.