di Francesca Carenzi
 
A marzo i balconi delle case erano pieni di disegni con la scritta “andrà tutto bene”, ma, come le foglie in autunno, pian piano sono spariti lasciando spazio solo al silenzio dell’inverno. Forse non siamo più così convinti che andrà tutto bene: il cinismo dilagante ne è una prova. L’ottimismo, se non poggia su basi solide, è destinato a crollare lasciandoci in mano solo delusione e tristezza.
 
Lo rivela anche il 54° Rapporto Censis contenente dati sulla situazione sociale italiana che devono far riflettere, in particolare per la situazione di giovani e donne. L’immagine dipinta è quella di una società stanca, che trascina da troppo tempo ferite e divisioni, a cui il virus ha dato il colpo di grazia. Il paese è descritto come “una ruota quadrata che non gira”, che avanza goffamente, spesso lasciando indietro qualcuno (basti guardare i dati sulla dispersione scolastica o alla mancanza di misure a tutela delle libere professioni). Si respira un’aria di paura e ansia, ma soprattutto colpisce vedere come nei giovani avanzino cinismo e disillusione, mentre a rigor di logica ci si aspetterebbe il contrario.
 
Parlando con molti compagni di università, si ritrovano tante esperienze quotidiane che conducono ad una perdita di fiducia: mandare curriculum (spesso) senza ottenere alcuna risposta, vedere sempre più lontana l’autonomia abitativa, ricevere come stipendio solo un rimborso spese ecc. Inoltre, nel Rapporto Censis, tra i dati riportati, si legge che il tasso di occupazione delle donne tra i 25 e i 49 anni con figli è del 53,4% e che in questi mesi sono andati in fumo 475.000 posti di lavoro (tra giovani e donne). Il 38,5% degli intervistati si dichiara pronto a rinunciare ai propri diritti civili in favore di maggiore benessere economico. Per questo, considerata la precarietà generale, non dovrebbe stupire più di tanto il crescente apprezzamento per la “bonus-economy”.
 
Sorge però un problema: per quanto ancora potremo continuare così? Le nuove generazioni si ritroveranno “vecchie” e stanche a trent’anni? Le preoccupazioni sono forti e legittime, ma se vogliamo rialzarci, dobbiamo cambiare l’atteggiamento che abbiamo. In primis noi giovani al cinismo dobbiamo sostituire il realismo. Un nuovo realismo, simile a quello invocato da María Zambrano durante il suo lungo esilio dalla Spagna franchista, che possa ricucire lo strappo che separa uomo e il mondo. Un modo di affacciarsi alla vita senza eroismi, ponendosi in un atteggiamento di cura verso le cose. È realista chi sa accogliere la realtà così come si presenta, anche nella sua drammaticità, senza retorica, ma tenendo sempre nella coda dell’occhio l’accettazione della complessità e la dedizione silenziosa dell’innamorato.
 
“Quest’anno siamo stati incapaci di visione” si legge nelle Considerazioni generali del Censis. È vero: da tempo manca una visione chiara e convincente del futuro del paese. In questo contesto siamo i primi a pagare lo scotto di una politica miope, che non è stata in grado di abbracciare le contraddizioni sociali ed economiche. La classe dirigente non ha fornito un’ispirazione convincente per superare le divisioni, risultando solo ancora più distante dalla vita comune. La retorica e le soluzioni “piccole” chiudono l’orizzonte e sviliscono la posta in gioco, fino a non essere più interessanti.
 
Dunque che cosa possiamo fare? Scegliere. Noi possiamo, anzi dobbiamo, scegliere innanzitutto di non tirarci indietro. Dobbiamo imparare ad accogliere la nostra contemporaneità senza temerne le contraddizioni e, allo stesso tempo, senza rinunciare alla possibilità che le cose cambino. Possiamo scegliere di essere realisti, anche se impone di pensare a soluzioni complesse, anche se chiede pazienza. Possiamo scegliere di non essere cinici decidendo quali parole ascoltare: se gli slogan semplicistici, oppure le parole che puntano “più in alto”. Possiamo scegliere di valorizzare quei “momenti di grazia” (come li chiamerebbe Simone Weil), in cui a dominare è una logica fraterna che rompe il cinismo del potere illuminando il grigiore circostante di una speranza nuova.
 
Non lasciamoci soffocare dall’immobilismo: guardando con attenzione, ci si può rendere conto che l’orizzonte non è del tutto nero. Tra tutti i problemi che ci circondano, accadono anche fatti che gridano tutto il bisogno di senso, di futuro e di bellezza, che per fortuna è ancora nel cuore di tanti. Infatti, in questi ultimi anni, molti ragazzi si sono spesi su temi spesso considerati secondari dalla politica, portando avanti un grande impegno al di fuori dei palazzi del potere. Pensiamo ai “Friday’s for future”, alle associazioni di rigenerazione urbana, a progetti di divulgazione nati durante la pandemia, a chi chiede di tornare a scuola, ai giovani attivisti che in tutto il mondo si battono per i diritti e per garantire un futuro migliore al proprio paese ecc. Sono tutti tentativi che, anche se imperfetti, dicono: “io ci sono e voglio essere protagonista”. C’è tutto un movimento, quasi magmatico, a livello sociale che testimonia il bisogno delle nuove generazioni di riconoscersi in valori nuovi, non già confezionati da altri e più vicini alla loro sensibilità.
 
Durante la pandemia, come Comunità di Connessioni, abbiamo avuto la possibilità di vedere tutto questo in atto, raccontandovi tante iniziative solidali nate spontaneamente nel nostro paese. È vero, sono realtà piccole, ma la loro sola esistenza testimonia la volontà di mettere da parte il cinismo. Possono essere decisive se messe a sistema, nella prospettiva indicata da Mounier: “La più grande virtù politica è non perdere il senso dell’insieme”.
 
È importante che siano riconosciute le nostre competenze, dando allo studio il suo valore e, allo stesso tempo, far sì che l’università possa dialogare con i cambiamenti del mondo lavorativo. Fondamentali saranno anche gli investimenti nella digitalizzazione (chiesti anche dall’Europa), perché il nostro futuro lavorativo si giocherà lì. È di vitale importanza che ci venga garantita la libertà d’iniziativa, snellendo i vincoli burocratici, soprattutto in campi quali la rigenerazione urbana, la creazione di spazi comunitari o i progetti di economia sociale e solidale. La politica deve accogliere tutte queste realtà, deve ascoltare la domanda profonda che questo fermento sociale porta con sé. Non vederla, preferendo ad essa la logica del potere, significherebbe perdere la possibilità di edificare una società a misura d’uomo. Senza ascolto, senza accettazione delle difficoltà e del buono, senza realismo da parte delle istituzioni e dei cittadini, il nostro futuro sarà sempre zoppo. Davanti a domande come “che paese immaginiamo per il futuro?” occorre che le risposte date siano all’altezza, magari anche aprendo (per davvero) la discussione con le nuove generazioni per un incontro reale tra istituzioni e cittadini.
 
Una prospettiva che aiuta le persone e anche la società a non soccombere, è quella dell’impegno nel reale: dobbiamo rimboccarci le maniche, senza aspettare che il cambiamento cada dall’alto, assumendoci la nostra responsabilità chiedendo di essere ascoltati. Tenendo una visione di insieme ed una prospettiva lunga sui processi, servirà grande impegno, pazienza e realismo, ma tanti di noi sono pronti: aspettano solo una chance.