di Francesco Occhetta
 
In politica diventiamo le parole che ascoltiamo e le scelte che facciamo. Le nostre abitudini disvelano chi siamo davvero. Nel tempo dell’epidemia, la paura e l’incertezza hanno fatto emergere le vulnerabilità strutturali in cui versa il Paese. Il virus ha aggredito i polmoni sociali e politici di una società ripiegata sul proprio individualismo, provata dall’erosione della classe media, dell’aumento dei poveri e dalla crescita di pochi ricchi.
 
Il recente Rapporto Censis attesta che solamente il 3% degli italiani possiede il 34% della ricchezza del Paese. La storia ci insegna che, quando la percentuale dei vulnerabili è troppo alta e la ricchezza rimane nelle mani di pochi, le rivolte sociali sono dietro l’angolo. Lo indicano due dati recenti: il 56% degli italiani vorrebbe mandare in carcere chi non rispetta le regole della quarantena, mentre il 44% auspica di ripristinare la pena di morte. In questo momento più che mai l’immagine evangelica del grano e della zizzania ha una forza evocativa struggente. Nel campo della vita, bene e male crescono insieme e la zizzania può essere arginata solo se il grano cresce più rigoglioso. Come, allora, rappresentare il dolore e l’angoscia di chi piange senza farsi vedere? In quale modo è possibile dar vita a un nuovo inizio?
 
Il blocco dei licenziamenti e la cassa integrazione in deroga sono solo misure analgesiche che alleviano il dolore senza risolvere il problema. L’alternativa – inclusa anche nella visione sociale della Chiesa – è quella di creare le condizioni per “il lavoro per tutti”. Questo obiettivo diventa raggiungibile grazie alla nuova visione di lavoro che le nuove generazioni stanno, in parte, sperimentando. La maggioranza degli italiani è disposta a rinunciare alle libertà personali in nome della tutela della “salute collettiva” e a “rimanere sudditi” per essere guidati acriticamente dallo Stato, pensato come salvagente e nuovo leviatano. Per quali motivi il Parlamento è silente e bloccato nelle sue funzioni davanti a questa ipnosi sociale? Può il Governo continuare a pilotare il Parlamento con decreti legge? Può impedirgli di discutere la legge di Bilancio per il secondo anno consecutivo?
 
L’implosione del sistema richiama alla mente un episodio raccontatoci da Tito Livio (Istorie, I): quando morì Romolo, dopo 37 anni di regno (l’equivalente della durata media della vita di allora), non esisteva quasi più nessuno che ricordasse un mondo senza il suo potere. Tutti pensavano che esistesse un solo sistema, l’unico che avevano conosciuto, pensavano fosse immortale. Invece, quando accadono rotture così profonde, queste impongono nuovi inizi a partire da alcune domande fondamentali: nella società italiana prevale la logica dell’utilità o quella della solidarietà? Cosa si cede del proprio per costruire il bene comune? Quale società si desidera lasciare alle generazioni future? Cosa resterà dopo lo stato d’eccezione? Non sono (solo) i consumi da rilanciare, ma noi stessi rischieremmo di finire consumati. La qualità della vita personale e sociale è da ripensare. Il sistema ha bisogno di una deframmentazione, come quella che si fa nei nostri computer. C’è bisogno di scegliere e decidere da quale parte stare.
 
Occorre anzitutto scegliere tra “la logica della menzogna” e “il principio di speranza” di cui parlava Ernest Bloch. Il “tempo fragile” che viviamo chiede di prendere una posizione che possa arginare la lotta di tutti contro tutti. L’individualismo e la chiusura nel privato hanno generato – come ricorda l’apostolo Paolo nel cap. 5 della Lettera a Galati – inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie. Al contrario, il principio di speranza si fonda sull’unità e la stima, la fiducia e la responsabilità, sull’intelligenza e il buon senso. Anche Ignazio di Loyola nel 1523 negli Esercizi spirituali chiede di vivere con un presupponendum positivo, quello di dare fino a prova contraria fiducia all’altro.
 
La seconda scelta, davanti a cui ci pone l’implosione dello Stato Nazione, ci obbliga a decidere se aderire ad un nuovo Impero o allo “sviluppo del locale”. Quest’ultimo è possibile attraverso una serie di riforme, a partire da quella costituzionale, passando per quella del sistema industriale e finanziario fino a una nuova politica dei territori. La dimensione locale sta rimodellando il suo volto: si vedono i giovani del Sud ritornare nei loro luoghi d’origine dopo aver studiato lontano, perché a molti di loro basta rimanere connessi alla rete per poter lavorare. L’innovazione, capace di creare un nuovo modello di sviluppo, inizia dalle università e dal buon governo dei territori. Questa nuova economia dev’essere progettata su scala locale, creando un tessuto territoriale che valorizzi le culture, le tradizioni e le risorse esistenti sul territorio (regional mosaic approach). La sostenibilità esige politiche di solidarietà a partire da quei beni comuni – come l’acqua, l’aria pulita, il cibo sano – che non possono essere gestiti solamente secondo logiche di mercato. C’è un dato decisivo che rende possibile ogni cambiamento: la responsabilità per il proprio territorio.
 
La terza scelta è quella di aderire alle dure “leggi del dialogo” per rinunciare a ogni forma di violenza che inizia sempre dalle parole o da lunghi silenzi. La forza del dialogo sociale è capace di superare i confini degli Stati nazionali per avere come interlocutori le culture e i centri reali del potere, come i grandi gruppi finanziari, le compagnie che controllano la Rete, le grandi multinazionali ecc. A questi interlocutori si deve chiedere che cosa significa umanesimo, mentre le culture, per essere capaci di “un dialogo aperto e informale, non devono avere nessun codice preparato in anticipo, e le regole della nostra interazione vanno fissate nella relazione”, ha scritto Bauman in Cose che abbiamo in comune. Nella cooperazione i dialoghi non sono giochi a somma zero: la collaborazione autentica non ha vincitori e sconfitti, ma permette a tutti di rinascere arricchiti. Le alleanze forti di cui il Paese ha bisogno possono nascere solo poggiando su questo fondamento.
 
È per questo che l’Europa è chiamata a diventare la casa comune di tutti i popoli europei, attraverso politiche che valorizzino le diversità culturali, ecologiche e le differenti potenzialità economiche di ciascuna regione. Altrimenti le spinte separatiste bloccheranno tale processo. Dobbiamo renderci conto che un mondo, quello che abbiamo conosciuto, in cui abbiamo creduto e vissuto, è finito. Ricominciare un ciclo nuovo, guidato da comunità culturali preoccupate di “coltivare persone”, e non di “sedurre clienti” è ancora possibile. Occorre però ritornare a impegnarsi direttamente.