di Ferdinando Tufarelli
Il 27 aprile scorso la Corte costituzionale ha reso noto che tutte le norme che attribuiscono ai figli il cognome del padre sono illegittime. Lo ha fatto attraverso la consuetudine del comunicato stampa per entrare nel cuore del dibattito pubblico.
La sentenza porta l’Italia ad adeguarsi ad al altri Paesi europei che, in modo diverso, prevedono la possibilità della scelta del cognome o lasciano libertà di dare il cognome materno o paterno, come in Francia, oppure prevedendo la possibilità di inserirli entrambi scegliendo quello a cui dare la precedenza come in Spagna, altri ancora prevedendo la libertà di dare il nome di famiglia o dei singoli genitori come nel caso della Germania.
Quella che sarà pubblicata nei prossimi giorni è una decisione di quelle “che cambiano la vita”. Il tema viene da lontano. Nel 1988 la questione era stata esaminata dalla Corte che aveva segnalato la necessità di un intervento del Parlamento affinché approvasse una legge in linea con il nuovo concetto di famiglia e valorizzasse la parità dei coniugi.
In attesa della sentenza che “sarà depositata nelle prossime settimane”, quali sono i parametri costituzionali contenuti nel comunicato che ci aiutano a capire le ragioni del giudici nella motivazione della sentenza?
Gli articoli della Costituzione violati dalle leggi vigenti sul cognome sono gli articoli 2, 3 e 117 primo comma. Il riferimento a quest’ultimo articolo è dovuto all’influenza della giurisprudenza europea sulla decisione della Corte e la violazione di articoli della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU).
Per la Corte i genitori devono poter condividere la scelta del cognome del figlio perché “costituisce elemento fondamentale dell’identità personale” nel rispetto del principio di eguaglianza e nell’interesse del figlio stesso. Per questo “il figlio assume il cognome di entrambi i genitori nell’ordine dei medesimi concordato, salvo che essi decidano, di comune accordo, di attribuire soltanto il cognome di uno dei due”.
Sarà comunque compito del legislatore definire tutti gli aspetti e le conseguenze derivanti dall’illegittimità della normativa italiana vigente.
Come si è arrivati fin qui?
Prima della Costituzione il modello di famiglia stabiliva che “il marito è il capo della famiglia stessa; la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno di fissare la sua residenza” (Codice civile del 1942). Nell’ambito di questa impostazione era impossibile per la madre attribuire il proprio cognome al figlio e identificarlo con il cognome materno.
I costituenti invece riconobbero – tranne alcune voci fuori coro – l’uguaglianza formale tra i coniugi permettendo attraverso l’articolo 29 della Costituzione di aprire la strada a un cambio di impostazione che includeva “l’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi” e l’obbligo/responsabilità per entrambi di mantenere, istruire ed educare i figli. Con la riforma del diritto di famiglia nel 1975 il Parlamento compie un passo in più: riconosce la piena uguaglianza tra marito e moglie, interpretando il cambiamento della società e individuando il nucleo della famiglia nel rapporto tra i coniugi e quello tra genitori e figli. Era stato acquisito un dato giuridico e antropologico: se la famiglia voleva essere pensata come una comunità, allora doveva reggersi sulla pari dignità delle persone che la costituiscono.
Il principio di uguaglianza tra i coniugi diventa l’elemento fondamentale della famiglia.
Successivamente, con l’ordinanza n. 176 del 1988 la Corte segnalò come un criterio diverso per l’attribuzione del cognome sarebbe stato in linea con l’evoluzione della coscienza sociale e più rispettoso dell’autonomia dei coniugi. I giudici costituzionali erano convinti che quel cambiamento fosse “una questione di politica e di tecnica legislativa di competenza esclusiva del conditor iuris”. La stessa posizione è stata ribadita nell’ordinanza n. 586 dello stesso anno. Ma il Parlamento fece finta di nulla.
In queste due ordinanze la Corte rimarcava i dubbi espressi da coloro che si appellavano, chiedendo di superare la concezione patriarcale che è alla base dell’impedimento di poter prevedere criteri diversi per l’adozione del cognome.
Nel 2016 si registrava un’altra tappa della Corte in materia: con la sentenza n. 286 del 2016 si dichiara l’illegittimità costituzionale nella parte in cui la legge non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno. Tale impedimento viola “il diritto all’identità personale del minore, (…) e un’irragionevole disparità di trattamento tra i coniugi, che non trova alcuna giustificazione nella finalità di salvaguardia dell’unità familiare”.
Si ribadisce qui ciò che era già stato affermato nelle ordinanze del 1988, ovvero che il cognome rappresenta un punto determinante dell’identità personale del minore che “si proietta nella sua personalità sociale”. Inoltre si riprende quanto affermato nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) la quale, nel 2014, affermava che l’impossibilità per i genitori di attribuire al figlio alla nascita il cognome della madre anziché quello del padre, viola diversi parametri. Secondo la Corte CEDU la limitazione viola il divieto di discriminazione, il diritto al rispetto della vita privata (art, 8 e 14 CEDU) e rappresenta una lacuna del sistema italiano a tal punto che viene auspicata l’attuazione di “riforme nella legislazione e/o nelle prassi italiane”.
Era il 2016 quando la Corte costituzionale dichiara la sentenza “indifferibile” l’intervento del legislatore italiano. Dopo la sentenza, nell’inerzia legislativa, viene adottata nel 2017 una circolare del Ministero dell’Interno che prende atto della decisione della Corte e indica le procedure da seguire per l’attribuzione del cognome materno ai nuovi nati. È stato un passo avanti importante, ma limitato alla possibilità di attribuire al figlio anche il cognome materno in presenza di accordo tra i genitori.
Arriviamo così alla decisione del 2022. Con l’ordinanza n. 18 del 2020 la Corte dubita che l’accordo dei genitori sul cognome da dare al figlio possa rimediare alla disparità fra di loro visto che, in mancanza di accordo, sarebbe continuato a prevalere comunque il cognome del padre. È a partire da qui che la Corte rimette tale dubbio a sé stessa. Così si è chiesta se la regola vigente che in mancanza di accordo dei genitori, impone l’acquisizione alla nascita del cognome paterno, anziché dei cognomi di entrambi i genitori, sia conforme alla Costituzione italiana e alla legislazione europea.
La sentenza che verrà pubblicata nei prossimi giorni è la tappa finale di una lunga evoluzione della giurisprudenza costituzionale. La Corte ha preso atto dell’inerzia prolungata del legislatore e non può più consentire che sia ancora vigente una legislazione sul cognome che non riconosca l’evoluzione della famiglia e della parità dei suoi componenti.
Sarà compito del Parlamento disciplinare le conseguenze di questa decisione della Corte; uno dei sette disegni di legge ancora fermi ai blocchi di partenza, in cui non risulta nemmeno la nomina di un relatore, potrebbe rappresentare la soluzione legislativa più idonea a tutelare il valore identitario del figlio e la parità dei coniugi. È un altro passo di civiltà giuridica.