di Vincenzo Pugliese*

 
 
 
L’Unione Europea si è avvicinata moltissimo al punto di non ritorno. Il dibattito tra Stati membri sull’individuazione di strumenti economici comunitari per far fronte alle crisi causate dal Covid 19 è sfociato in un compromesso nella tarda serata del giovedì santo. Lo scontro vedeva da una parte i Governi nazionali avviluppati ad interessi particolari, perlopiù elettoralistici, e dall’altro le istituzioni europee (Parlamento e Commissione europea) garanti della tenuta del sistema comunitario.
Ora, da questo accordo, deve nascere una nuova unione europea. Come ha efficacemente detto Papa Francesco durante l’omelia della messa di Pasqua “oggi l’Unione Europea è di fronte a una sfida epocale da cui dipenderà il suo futuro. Serve solidarietà, l’alternativa è solo l’egoismo. Non è questo il momento delle divisioni”.
 
È proprio in questi momenti, così tragici e dolorosi, che emerge con forza l’importanza del progetto storico europeo. Svolgendo una analisi semplice ed elementare è patente che le persone comuni, quelle disinteressate a certe logiche di potere, conoscono bene il linguaggio della fiducia e della solidarietà civica. Tuttavia, è altrettanto evidente l’inquietudine degli “eletti” della politica nell’interpretare ed incastrare i vari tasselli del mosaico europeo. D’altronde gli equilibri generali, in tempo di pace, si mantengono intatti attraverso le rendite di posizione personali. Ma oggi viviamo una guerra. La scena politica europea si sta sfilacciando ed il rischio del crack è molto più avvertito. Esemplare è il caso ungherese, in cui il Primo Ministro Viktor Orbán dimostra un avvicinamento a pratiche di governo estranee alle consuetudini democratiche comunitarie.
 
Tutte le conseguenze derivanti da tre lustri di crisi economica e finanziaria mal gestita, di solidarietà azzerata, di “guerre sante” imperniate sull’integralismo religioso, stanno progressivamente emergendo. Si ha la percezione di una progressiva diminuzione di fiducia tra i popoli europei, oltre che tra cittadini ed istituzioni comunitarie. Un effetto, questo, che si declina anche in termini di demolizione del fondamentale processo di integrazione. Questa tendenza non può produrre una uscita definitiva dalla crisi.
È suggestivo, in questo momento storico, ricordare la “tregua di Natale” del 1914, che vide i soldati provenienti da unità tedesche, francesi ed inglesi, in piena guerra mondiale, lasciare spontaneamente le proprie trincee per incontrarsi fraternamente, scambiarsi cibo e buoni auspici. Questo “metodo” mosse i padri fondatori nel 1957 nel tentativo di costruire un modello europeo, seppur primordiale, basato su un sistema economico scevro da liberismo americano e collettivismo sovietico. Ora tocca a noi, riproporlo.
 
Il collante religioso assume de facto una rilevante importanza. Risultano attuali più che mai le posizioni del Papa emerito sul dibattito incentrato sulle radici religiose dell’Europa. Benedetto XVI ha sempre sostenuto che dimenticare le radici cristiane esponesse il continente al rischio di vedere il suo slancio originale soffocato dall’individualismo e dall’utilitarismo.
 
Ovviamente, evocare le radici cristiane dell’Europa, non significa chiedere una posizione privilegiata per la Chiesa, ma solamente fare opera di memoria storica. D’altronde Robert Schuman, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi, oltre a condividere i dolori della guerra, erano cristiani. Tuttavia non si fa torto a nessuno, ammettendo che il solco dei valori europei risiede principalmente nella eredità cristiana. Mutuando ancora le parole di Papa Benedetto: l’Europa può omettere il principio organico originale di questi valori che ha rivelato all’uomo sia la sua eminente dignità sia il fatto che la sua vocazione personale lo apre a tutti gli altri uomini con i quali è chiamato a costituire una sola famiglia? Lasciarsi andare a questo oblio, non significa esporsi al rischio di vedere questi grandi e bei valori entrare in concorrenza o in conflitto gli uni contro gli altri? Questi valori rischiano di essere strumentalizzati da individui e gruppi di pressione desiderosi di far valore interessi particolari a scapito di un progetto collettivo ambizioso, che gli europei perseguono, avendo come scopo il bene comune degli abitanti del Continente e dell’intero mondo?
 
Anche altri osservatori, appartenenti ad orizzonti diversi, hanno percepito questi problemi. Sin dall’origine, le élite politiche che si sono avvicendate nel processo di costruzione di una Europa unita, sono andate alla ricerca di un’identità da sbandierare. Un filone di pensiero importante si sviluppa intorno al rifiuto della concezione “no demos”. Una visione, molto diffusa in Germania al tempo della redazione del Trattato di Maastricht, declinabile in questi termini: se non esiste un unico popolo europeo, un’unione politica sarebbe fondata sulla sabbia. Tesi superata grazie all’impegno profuso negli anni da Jurgen Habermas. Il demos non è conditio sine qua non di una democrazia transnazionale, bensì è una conseguenza. In tal senso, la frammentazione politica in Europa risulta contro tendente rispetto allo sviluppo di una società globale multiculturale. Di conseguenza, frena le evoluzioni di carattere giuridico – costituzionale nei Paesi membri.
 
Pertanto, la “cittadinanza europea”, introdotta nel Trattato di Maastricht, può ritenersi una conquista. Ed il Trattato di Lisbona funge da pietra miliare, poichè si fa esplicito riferimento ai principi comunitari della libertà, della democrazia, del rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Nonostante ciò, è particolarmente rilevante prendere atto di un fatto: alla firma di Lisbona nel 2009 ci si arriva a seguito di litigi ed incomprensioni più politiche che costituzionali. Causa principale di un indebolimento delle migliori energie europeiste. Il fallimento del trattato del 2004 ha provocato la soppressione del nome di “Costituzione”, della denominazione di “Ministro” degli Esteri e delle “leggi” europee, oltre a riferimenti di natura strettamente costituzionale. A titolo esemplificativo, il primo articolo del trattato in questione faceva riferimento alla “volontà dei cittadini e degli Stati europei di costruire un futuro comune”. Riferimento puntualmente eliminato. In virtù di ciò si può dedurre pacificamente, come il Trattato di Lisbona rifletta chiaramente un assetto nazional-governativo, più che la “volontà” dei cittadini dell’Unione.
 
È d’uopo ammettere che emozioni e sentimenti condivisi, non si sono mai tradotti in azioni politiche comuni (-tarie!). La confusione intellettuale, da Nordkapp (Norvegia) a Punta de Tarifa (promontorio all’estremità della Spagna), regna sovrana.
 
Oggi, però, sappiamo bene che nessuno si salva da solo. E risulta con altrettanta chiarezza che l’Europa ha bisogno di un collante fondamentale: la solidarietà. Lo scenario alternativo è rappresentato dall’uscita coatta di molti Stati membri dall’Unione, la disintegrazione delle istituzioni comunitarie e del mercato comune.
La ripartenza è una certezza. Ma bisogna farlo con metodo. Ripartendo proprio da quel metodo che, comprendendo la tregua, economica e politica, rappresenta una garanzia per il futuro.
 
*avvocato amministrativista
avvpugliesev@gmail.com
 
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