di Giuseppe Falvo
Nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario i dati riferiti dal Presidente della Corte di Appello di Roma e dal Procuratore Generale della Corte di Appello di Roma indicano una lenta ripresa della macchina giudiziaria ancora influenzata dalla pandemia. Al contempo, mettono in evidenza l’aumento del numero dei casi di reati di violenza nei confronti delle donne e dei soggetti appartenenti alle cd. fasce deboli.
Per contenere un fenomeno in continua crescita ed introdurre alcune correzioni e modifiche normative il Governo Draghi ha presentato un nuovo pacchetto di misure finalizzate alla prevenzione e repressione della violenza di genere.
Tra queste troviamo quelle contenute nel disegno di legge (d.d.l.) approvato il 3 dicembre 2021 dal Consiglio dei Ministri, su proposta delle Ministre per le pari opportunità, Elena Bonetti, della Giustizia, Marta Cartabia e dell’Interno, Luciana Lamorgese, recante “Disposizioni per la prevenzione e il contrasto del fenomeno della violenza nei confronti delle donne e della violenza domestica”, attualmente all’esame della Commissione giustizia al Senato. Il provvedimento, a causa della crisi di governo, si trova ora bloccato in Parlamento senza poter entrare in vigore in questa legislatura. Il dibattito e l’approvazione sono rimandati in data successiva al 25 settembre.
Il provvedimento si innesta nel quadro dei principi già fissati dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, chiamata Convenzione di Istanbul, del 11 maggio 2011. Nel testo si parla della violenza contro le donne e della violenza domestica, identificandola come uno dei pilastri della cosiddetta strategia delle “3P” (prevenire, proteggere le vittime, perseguire gli autori).
Secondo la convenzione, infatti, la prevenzione richiede che gli Stati firmatari assumano misure volte a contrastare le cause profonde del fenomeno. In essa si invita a compiere campagne di sensibilizzazione e ogni altra misura utile volte a modificare quegli atteggiamenti, ruoli di genere e stereotipi che concorrono a rendere socialmente accettabile e giustificabile la violenza sulle donne e la violenza domestica.
Gli interventi previsti dal d.d.l. che incidono sul codice penale, sul codice di procedura penale, sul codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione e su leggi speciali, sono volti a determinare un deciso incremento del tasso di effettività delle misure per prevenire e reprimere la violenza di genere «con una particolare attenzione» – si legge nella sua relazione illustrativa – «ai casi in cui tale fenomeno si manifesta in contesti familiari o nell’ambito di relazioni di convivenza, nella considerazione della particolare vulnerabilità delle vittime, nonché degli specifici rischi di reiterazione e multilesività».
Si tratta di un intervento strutturale che intende incidere su tutte le fasi pre-processuali e processuali sin dal momento in cui la persona offesa ha il primo contatto con le forze dell’ordine, passando alle misure di prevenzione e di pubblica sicurezza a tutela delle vittime, per giungere poi alle misure e cautelari, fino al giudizio e all’esecuzione della pena.
Il nuovo d.d.l., fa seguito ad altri provvedimenti assunti negli ultimi anni, sulla spinta dei molteplici fatti di cronaca e con l’intento di contenere il fenomeno attraverso misure via via sempre più afflittive. Tutti i provvedimenti richiamati si caratterizzano per aver via via inasprito la risposta sanzionatoria dell’ordinamento nei confronti dei responsabili di reati legati alla violenza di genere. In realtà, in un contesto come quello italiano, dove al proliferare di norme, come dimostrato dai dati, non è corrisposto un contenimento o riduzione del fenomeno, il fulcro dell’attenzione dovrebbe essere rivolto alla necessità di potenziare gli interventi normativi già esistenti, da un lato, garantendone l’effettiva applicazione e, dall’altro, modulandoli alle necessità reali.
Secondo il Questore di Bologna Isabella Fusiello – prima donna a ricoprire questa carica a Padova e Bologna – quella della violenza di genere “ormai non è più una situazione emergenziale, è un fenomeno strutturale all’interno della società che investe tutti i ceti sociali”, sottolinea il questore: “Non reputo solo ed unicamente la sanzione penale la soluzione del problema. Si vuole risolvere tutto in un problema di repressione, ma non si punta sulla prevenzione e io in questa credo molto. È su questo piano che va affrontato il problema della violenza di genere: noi spesso agiamo interveniamo quando il fattaccio è già commesso”, ed aggiunge: “abbiamo anche riscontrato che più si agisce sulla sanzione e sul suo inasprimento, più l’autore di questi comportamenti diventa cattivo fino ad annullare fisicamente la compagna e i figli e addirittura ad infliggersi la sanzione più grave, perché alla fine si ammazza”; di conseguenza, per Fusiello “devono intervenire anche medici, psicologi e altre strutture, non solo ed esclusivamente Polizia di Stato, Forze dell’ordine e il Tribunale”.
Occorre, in buona sostanza, prendere atto della sostanziale inadeguatezza delle risposte che il paradigma tradizionale fornisce, come rimedio, alla commissione dei reati di violenza di genere. Il contrasto di un fenomeno così diffuso, come quello della violenza sulle donne, affidato alle sole forze dell’ordine e magistratura è certamente necessario, ma non basta. Altrimenti si rischia di occuparsi solo del contingente e di casi singoli, mentre la risoluzione del problema richiede interventi di sistema che non mirano solo ad inasprire ulteriormente il precetto penale, ma realizzano una vera e propria prevenzione degli stessi fenomeni. La repressione rappresenta, forse, la soluzione più semplice, richiede il coinvolgimento e coordinamento di due soli organismi: le Forze dell’Ordine e la Magistratura.
Per realizzare la prevenzione, invece, il coordinamento è certamente più complesso, in quanto coinvolge la Pubblica Amministrazione, le Forze Politiche, l’Associazionismo, le Organizzazioni sindacali, il Volontariato, la Chiesa, la Famiglia e, infine, il singolo cittadino. Nonostante ciò, la sfida della prevenzione può fare molto di più: portare un cambiamento alla radice, che parte da buone pratiche comportamentali, fino ad arrivare a un rinnovamento culturale. Occorre maturare una cultura condivisa della legalità sostanziale e non soltanto formale. Viviamo in un contesto generalizzato di paura e di sfiducia diffusa verso le istituzioni, comprese quelle della giustizia, verso le regole e la loro effettività.
In questo contesto, la valorizzazione del controllo sociale reciproco può certamente rappresentare un contributo di tutti alla ricostruzione di un clima di fiducia. Lo sviluppo del controllo sociale, attraverso una prevenzione efficace, assume un rilievo intermedio fondamentale, tra il controllo personale di coscienza, connotato da evidente fragilità e quello istituzionale che si contraddistingue per eccessivo formalismo e l’inefficienza, basti pensare alla notoria tardività dell’intervento repressivo penale.
Lo ribadiamo: “Prevenire è meglio che reprimere”. Questo principio deve valere non soltanto in campo sanitario, ma può certamente diventare il punto fermo che sta alla base di ogni possibile iniziativa legislativa, in tema di contrasto alla violenza di genere, da intraprendere in futuro. In tal senso vi sono stati, in altri settori dell’ordinamento, interventi legislativi virtuosi che non hanno mirato semplicemente ad introdurre ulteriori sanzioni o inasprire quelle già esistenti, ma hanno puntato principalmente su azioni di prevenzione dei fenomeni.
Si pensi alla legge n. 71 del 29 maggio 2017 (“Disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione e il contrasto del fenomeno del cyber bullismo”), attraverso la quale sono state, introdotte misure di carattere educativo e formativo, finalizzate, in particolare, a rendere consapevoli i più giovani delle conseguenze negative di comportamenti persecutori on line e della grave sofferenza che ne deriva in capo alla vittima.
Il legislatore, in questo caso, ha privilegiato l’adozione di strumenti preventivi di carattere educativo senza ricorrere a strumenti di natura penale repressiva. Ha introdotto un corollario di tecniche di prevenzione e di difesa a tutela dei minori creando una rete di interventi ad hoc, quali la specifica formazione del personale scolastico, la promozione di un ruolo attivo degli studenti e la previsione di misure di sostegno e rieducazione dei minori, la designazione di un referente per iniziative contro il cyberbullismo e il coinvolgimento delle Forze di polizia e delle associazioni giovanili presenti sul territorio. Prevenire la violenza di genere vuol dire combattere le sue radici socio-culturali e le sue cause.
Per questo è necessario promuovere azioni mirate all’educazione, alla sensibilizzazione, al riconoscimento e alla realizzazione delle pari opportunità in ogni ambito della vita pubblica e privata con l’obiettivo di combattere le discriminazioni, eliminare i pregiudizi e superare modelli stereotipati legati ai ruoli di genere e al sessismo, che producono le condizioni contestuali favorevoli alla perpetuazione della violenza maschile contro le donne.
In tal senso, l’attenzione deve essere massima sui mass media e sulle nuove generazioni, investendo nella formazione, rafforzando il sistema scolastico e migliorando la capacità operativa degli insegnanti in merito a come intercettare, prevenire, far emergere e gestire situazioni di violenza, promuovendo l’educazione alla parità tra i sessi, per il superamento dei ruoli e degli stereotipi di genere.
Sarà, infine, necessario incentivare percorsi di rieducazione degli autori di atti di violenza contro le donne. Avrebbe un impatto positivo al contrasto della violenza di genere il ricorso alle pratiche della giustizia riparativa, prima fra tutte la mediazione tra vittima di violenza e l’autore del reato. Allo stato attuale, se l’applicazione di una pena può, al più, dare risposta alle esigenze di protezione delle vittime, non è invece in grado di imprimere nel reo un monito profondo che ne favorisca la rieducazione, né di assicurare alla donna, nonché alla collettività, garanzie circa il contenimento del rischio di recidiva.
Viceversa, è necessario un percorso che coinvolga la vittima, il reo e la comunità nella ricerca di una soluzione che promuova la riparazione, la riconciliazione e il senso di sicurezza collettivo e sia in grado di valorizzare quelle istanze rieducative, troppe volte frustrate dall’instaurazione di un procedimento penale i cui binari conducono i verso l’irrogazione di una pena il più delle volte improduttiva di qualsivoglia positivo effetto, sia sul reo che sulla vittima.
Nel modello della giustizia riparativa anche il reo diviene coprotagonista nella gestione del conflitto in quanto non vi può essere alcun riconoscimento delle conseguenze dannose causate se egli non intraprende un percorso volto all’assunzione di responsabilità rispetto al proprio comportamento. Grazie alla mediazione si apre un dialogo, stimolato dal confronto con la vittima del reato e con la comunità, che favorisce nel reo un ripensamento critico del proprio agire da cui può scaturire la sincera volontà di adoperarsi per riparare il danno causato e di ottenere la ricostruzione della verità, intesa non in senso processuale sul fatto storico e sulla responsabilità, ma come verità sulle motivazioni del reato e sul contesto che lo ha determinato.
In definitiva, tale percorso si dimostra idoneo a promuovere sia la responsabilizzazione del reo, sia l’avvio del processo di superamento del trauma da parte della vittima. Non può di certo negarsi che la dinamica della violenza di genere e nelle relazioni familiari ponga sfide particolari per la pratica di giustizia riparativa, sia riguardo la garanzia di un adeguato livello di sicurezza delle vittime sia relativamente alla partecipazione realmente volontaria delle parti.
Pertanto, è necessario che il percorso riparativo-mediatorio debba trovare legittimazione attraverso una progressiva integrazione con l’ordinario assetto del sistema penale, anche perché la giustizia riparativa non può farsi carico in via esclusiva del conflitto originato da un reato, poiché essa lavora su un conflitto che è pur sempre definito dal diritto penale.