di Vincenzo Rosati

“Prof, ma come si diventa insegnanti?”. Domanda folgorante di Alessio, nel mio primo giorno di docenza. Cosa rispondere? Mi avesse chiesto perché Omero avesse tramandato a voce i suoi poemi al posto di scriverli sarebbe stato di certo più facile replicare. Lì per lì, per superare l’imbarazzo, ho risposto: “Con il tempo, Alessio, con il tempo”. In realtà, in questa risposta c’è qualcosa di molto vero, o meglio, tristemente vero. Dopo un intero anno trascorso a ripensare cosa avrei potuto rispondere ad Alessio, un’amara constatazione è venuta a galla: in Italia non ci si prepara a essere insegnanti, ma con un po’ di fortuna, molta pazienza e tempo, come dice Alessio, insegnanti “si diventa”.

Partiamo da un semplice confronto con altri mestieri. Per svolgere un lavoro che implichi una forte ripercussione nella vita della persona con cui si interagisce bisogna essere accademicamente abilitati ed esperienzialmente provati. Ragion per cui, per essere poliziotto è necessario frequentare l’Accademia per 12 mesi, per iscriversi al concorso di avvocatura ci vuole un praticantato minimo di 18 mesi, per essere medico c’è una scuola di specializzazione di almeno cinque anni. E per essere insegnanti?

Attualmente l’amara realtà è questa. Molti di coloro che denominiamo insegnanti o professori sono dei laureati che si limitano, più o meno efficacemente, seppur con impegno, ad attuare delle prassi osservate e acquisite dai professori rimasti più impressi nella loro memoria. Queste abitudini, tuttavia, non sono state confrontate con una metodologia guida, approvata e corroborata da ricerche scientifiche. Inoltre, quella che chiamiamo “esperienza data dall’età” spesso rinforza solo delle pratiche deludenti e improduttive. Un esempio per tutti può essere l’insegnamento tradizionale e conservativo delle lingue classiche che ha contribuito a far sparire ogni anno di più Platone e Cicerone dai banchi di scuola. Da una prospettiva europea, infine, arrivano dati ancor più deludenti in quanto “la percentuale di formazione professionale inclusa nei percorsi di studio per diventare insegnante va da un 50% della durata totale della formazione iniziale nel Belgio francese, Irlanda e Malta a un 8% in Italia e Montenegro.”[1]

Ma è sempre stato così? In realtà sì, o giù di lì. Sistematicamente non c’è mai stato un intervento che andasse a “standardizzare” – nel senso di rendere uniforme e non appiattire! – la formazione dei docenti. Eccezione va fatta per la meteora della SSIS, ovvero la Scuola di Specializzazione dell’Insegnamento Secondario[2]. Questa scuola, iniziata in Italia nel 1999, prevedeva un biennio composto da più o meno utili insegnamenti in perfetto stile teorico-universitario e un illuminante e raro, come una pepita d’oro, tirocinio didattico educativo di complessive 300 ore, da svolgersi in buona parte nelle istituzioni scolastiche convenzionate.

I candidati all’insegnamento peraltro erano seguiti da un tutor della medesima materia e supervisionati da un insegnante della SSIS. Questa interessante esperienza si è inspiegabilmente conclusa nel 2009. Questa decisione ha provocato numerosi malcontenti, tra cui la testimonianza di Marcello Pacifico, presidente dell’Anief, che, attraverso un’ampia ricerca della Fondazione Agnelli[3], afferma come più di 100 mila docenti preparati dalle SSIS abbiano apprezzato quel genere di formazione.[4] Perché dunque se questa scuola si stavano perfezionando per offrire un’adeguata preparazione per i professori delle scuole secondarie sono state chiuse? A quanto pare, l’allora ministro Mariastella Gelmini optò, nel 2013, per un corso più esiguo, ridotto alla durata di un solo anno ma che si proponeva, con toni altisonanti, di essere in tutto e per tutto il “più duro e professionalizzante per abilitare una classe docente” denominato TFA (Tirocinio Formativo Attivo)[5]. Questo fantomatico percorso prometteva 475 ore di tirocinio, laboratori pedagogico-didattici e insegnamenti relativi. Sorte vuole che la “provvida e oculata” decisione dell’allora ministro Gelmini di cancellare la SSIS e sostituirla con un reboante ciclo formativo riuscì a durare a malapena due anni (ultimo ciclo 2014-2015), aprendo le porte a centinaia di migliaia aspiranti docenti a una vita di precariato.

Ma avviciniamoci ai giorni nostri. Il governo della “Buona scuola”, ovvero di Renzi, ha deciso nel 2015 d’introdurre “l’insalata mista” dei 24 CFU, ancora oggi in vigore, per cui come requisito di un buon insegnante non è necessario un tirocinio specializzante, ma è sufficiente una buona infarinatura delle discipline antropo-psico-pedagogiche e metodologie didattiche a scelta dello studente. Quindi la pratica costruttiva della SSIS rimane solo un ricordo di un’epoca d’oro, mentre si impone come caratteristica della formazione dell’insegnante un apporto teorico-conoscitivo, come se solo le pagine dei manuali rendessero un’esatta copia del rapporto tra alunno e professore o insegnassero efficacemente come si tenga una classe.

Successivamente, il governo Gentiloni nel 2017 sopprimeva definitivamente il TFA, interrotto già nel 2013, prevedendo in un futuro ipotetico, utopico e illusorio il percorso FIT (Formazione, Inserimento e Tirocinio). In realtà questo percorso non si tenne mai. La ciliegina sulla torta, però, l’ha messa il governo Conte I che abolendo nel 2019 l’ipotetico FIT, difatti mai esistito, decise che il percorso abilitativo più professionalmente qualificante e uniformemente meritocratico fosse un quiz nozionistico a crocette. Forse quest’ultimo è stato il più coerente, nella misura in cui non ha promesso nulla di interessante né all’inizio né alla fine.

Circa un mese fa, il 29 giugno 2022, è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale[6] un’ennesima nuova riforma, proposta dal ministro Bianchi, sul reclutamento e formazione dei docenti. Cos’è cambiato? Alcuni aspetti sono migliorati, ma sostanzialmente siamo passati dall’insalata mista dei 24 CFU all’insalata russa dei 60 CFU, di cui, grazie al cielo, 20 dedicati a un breve tirocinio (la metà comunque rispetto a quello proposto dalla SSIS). Questi crediti universitari renderanno l’aspirante docente abilitato al concorso per la cattedra desiderata, in ogni modo privo dell’esperienza scolastica che invece dovrebbe essere cardine.

Quindi, cosa rispondere ad Alessio? Che alcuni con la SSIS, pochi col TFA, nessuno col FIT e tutti con la prestigiosissima università della vita e qualche esame in più, prima o poi, entrano in classe? Oppure che il suo professore ha scritto un articolo che verrà letto da qualcuno che motivato a fare il bene del Paese introdurrà finalmente un progetto unitario, stabile e ben delineato di formazione e inserimento dei docenti fondato sull’esperienza in classe?

 

*articolo pubblicato sul Corriere della Sera con il titolo “Formazione insegnanti, un segnale debole e soltanto teorico. Così non si diventa prof

[1] https://eurydice.indire.it/insegnanti-in-europa-carriera-sviluppo-professionale-e-benessere/5

[2] https://www.sissco.it/articoli/annale-i2000-1053/le-scuole-di-specializzazione-per-linsegnamento-superiore-1066/le-scuole-di-specializzazione-allinsegnamento-secondario-1069/

[3] Ricerca Sapere di non Sapere insegnare: https://www.fondazioneagnelli.it/2012/11/14/wp-46-sapere-non-sapere-insegnare-neoassunti-giudicano-la-formazione-ricevuta-g-de-simone-s-molina/

[4] https://anief.org/stampa/la-stampa-scrive/3757-tmnews-anief-caos-tfa-colpa-di-gelmini-perche-chiuse-le-ssis

[5] https://www.orizzontescuola.it/gelmini-docenti-tfa-rigidamente-selezionati-non-vanno-esclusi-assunzioni/

[6] Legge 29 giugno 2022, n. 79, art. 44 – Gazzetta Ufficiale Anno 163, numero 150.