di Michele Faioli

Tassazione, contrattazione collettiva e politica dei redditi, dal protocollo Ciampi-Giugni del 1993, con cui si superava in Italia la scala mobile, sono tre aspetti che dovrebbero avere la cabina di regia in un sano sistema di relazioni industriali. Nel 1993 si giustificava la scelta della moderazione salariale in relazione al contesto politico-economico dell’epoca. Cgil, Cisl, Uil, organizzazioni datoriali e il governo decisero che le retribuzioni dovevano essere allineate con l’inflazione, non quella effettiva, ma quella correlata all’aumento programmato dal governo. Le differenze venivano compensate periodicamente mediante la contrattazione collettiva. Nel 2009, con un accordo quadro non sottoscritto da CGIL, si sostituì il tasso di inflazione programmata con l’indice previsionale costruito sull’IPCA (indice prezzi al consumo depurato dei prezzi energetici), elaborato da un soggetto terzo autorevole (ISTAT).

La contrattazione nazionale, in qualche modo, con un po’ di difficoltà, dopo il 2009, ha provato a recepire tale indice. Con l’accordo interconfederale del 2018 si è voluto consolidare questo meccanismo: i tre grandi sindacati e il sistema confindustriale dovrebbero far riferimento agli scostamenti IPCA per calcolare la variazione dei minimi salariali, anche nella fase di rinnovo contrattuale. Ma sappiamo che non è così. I grandi rinnovi contrattuali recenti hanno trovato vie alternative all’IPCA, pur muovendo da essa. Osservando quei rinnovi si capisce che il salario è sempre meno legato all’aumento dei prezzi (IPCA), data l’attenzione che le parti contrattuali hanno rispetto alla dinamica dei profitti in quel settore, con meccanismi vari di aggiustamento periodico, anche ex post, negoziato tra le parti (si v. come esempi il CCNL dei meccanici e il CCNL dei chimici).

Resta, però, un problema. Da più parti si continua a segnalare che la paga media lorda di un lavoratore a tempo pieno è pressoché uguale da dieci anni. Inoltre, la dinamica salariale italiana pare non seguire quella del prodotto né nelle fasi di crisi né in quelle di ripresa. Si dice che in Italia c’è una bassa flessibilità della parte salariale rispetto alla situazione economica generale. La crisi energetica di queste ultime settimane moltiplica questo effetto di rigidità perché, indirettamente, incide sul costo della vita, con il quale, nella quotidianità, ci si confronta duramente in tante famiglie, muovendo da un salario spesso inadeguato. Il che comporta, alla lunga, il realizzarsi di lavoro povero e, di conseguenza, tutte quelle forme di esclusione sociale che colpiscono i genitori, ma ancor di più le figlie e i figli di quelle famiglie, i quali restano fuori da potenziali leve di ascensore sociale, non potendo rafforzare le proprie competenze con una serie di strumenti che vanno anche oltre la scuola, collegati alla vita culturale, sportiva, aggregativa, etc. che solo una certa sicurezza economica può permettere. Qualora anche il percorso scolastico dovesse essere debole, per ragioni di disorganizzazione locale o inefficienze formative, tutto ciò potrebbe diventare l’inizio di una tragedia sociale, individuale e collettiva.

Cosa si può fare? Le grandi istituzioni europee, l’OCSE e altre organizzazioni internazionali, da tempo, insistono per un maggior ruolo in Italia della contrattazione decentrata nella definizione dei salari e dell’organizzazione del lavoro. Il che potrebbe favorire un allineamento più efficace tra la crescita dei salari e quella della produttività, mitigando quelle rigidità della contrattazione nazionale sui meccanismi di indicizzazione automatici. Si sa che il Pil pro capite italiano, il quale a parità di potere di acquisto nel 1995 era di 9 punti superiore a quello medio europeo, nel 2019 era inferiore di 10 punti. La produttività del lavoro, dopo essere cresciuta dal secondo dopoguerra agli anni Novanta, negli anni successivi ha registrato un declino veloce, altresì seguito da una sostanziale stagnazione. Per esemplificare, dal 2000 al 2019 il valore aggiunto italiano per ora lavorata è cresciuto di appena il 3% a fronte del 20% tedesco, francese e spagnolo. Nel 2019 Banca d’Italia già sosteneva che, data la nostra demografia calante, “per riportare […] il tasso medio di espansione del PIL all’1,5 per cento registrato nei dieci anni precedenti la crisi finanziaria globale, la produttività del lavoro [sarebbe dovuta] aumentare di circa lo 0,8 per cento all’anno tra il 2023 e il 2032”.

Incentivare la produttività significa decidere di muovere il baricentro delle relazioni industriali dal contratto nazionale a quello decentrato. Tutti auspicano questo spostamento, ma nei fatti ciò difficilmente accade. Ci sono aree del paese (triangolo industriale Torino-Rimini-Treviso) e settori produttivi (meccanica, alimentari, chimica, energia, tessile) che sono virtuosi perché la contrattazione decentrata è ben sviluppata e radicata. Ci sono, invece, aree geografiche e settori dove i salari, non solo sono fermi a dieci anni fa, ma seguono una tendenza anomala che è quella del dumping rispetto ai CCNL sottoscritti dalle parti più rappresentative. Ciò significa che si riduce il costo del lavoro (e, di conseguenza, il salario) perché si applica un contratto nazionale che è costruito su un delta protettivo in negativo rispetto ai contratti collettivi di qualità.

I dati più recenti sullo sviluppo contrattuale del sistema italiano sottolineano che la percentuale di incremento dei depositi dei CCNL presso l’archivio CNEL dal 2011 (data del primo protocollo sulla misurazione della rappresentatività – giugno 2011) al 2021 è pari a circa il 170% (il numero di CCNL vigenti – settore privato depositati al CNEL il 1° gennaio 2011 era di 347; il numero di CCNL vigenti – settore privato depositati al CNEL il 19 novembre 2021 è di 933). Con riferimento alla distribuzione dei CCNL si segnalano alcuni settori che sono particolarmente colpiti da questo fenomeno di incremento incontrollato: nel terziario compare circa il 25% del totale (235 CCNL depositati al CNEL); a seguire il settore della sanità/assistenza privata (13%, con 121 CCNL depositati), dei trasporti/logistica (8%, 73 CCNL), dell’edilizia (8%, 71 CCNL), dell’agricoltura (6%, 58 CCNL), dei meccanici (5%, 42 CCNL). Il numero complessivo dei CCNL sottoscritti da CGIL, CISL, UIL a novembre 2021 è di 210. Il numero complessivo dei CCNL utilizzati dall’INPS ai fini dei minimali contributivi (l. 89/1989), nel medesimo periodo, è di 408. Il numero complessivo dei CCNL che non sono sottoscritti da CGIL, CISL, UIL, ma da organizzazioni minori è di 723.

In questo contesto prolifera ampiamente il lavoro povero perché c’è una sorta di indiretta “aziendalizzazione” della contrattazione nazionale. Cioè, organizzazioni minori, datoriali e sindacali, stipulano CCNL a basso contenuto protettivo e di costo del lavoro che sono applicati a pochi o a pochissimi datori di lavoro di una certa zona geografica del paese, che operano in certo settore. A voler seguire intenti elusivi, non c’è più bisogno di un contratto aziendale che deroghi in modo incontrollato il CCNL: si può costituire un’organizzazione, stipulare un CCNL al ribasso e farlo applicare a una dozzina di datori di lavoro. Tali organizzazioni sindacali e datoriali, tra l’altro, pubblicizzano il social dumping (riduzione del costo del lavoro che si ottiene dal vincolo a quel CCNL) e iniziano a operare a danno dei lavoratori, incidendo sulla competizione al ribasso nell’ambito salariale.

La contrattazione decentrata non prolifera se la contrattazione nazionale non crea un coordinamento efficace tra articolazioni nazionali/territoriali dei soggetti stipulanti. Inoltre, meno contrattazione decentrata si fa e meno investimenti ci sono in tecnologia innovativa. Il peso del recupero salariale si sposta, di conseguenza, su quelle imprese italiane (meno della metà) che competono a livello globale, esportando e facendo competizione in ragione delle innovazioni produttive che hanno adottato nel tempo, anche con il supporto di una contrattazione collettiva che rende più adattabile l’organizzazione del lavoro. La restante parte delle imprese italiane spesso blocca una propria metamorfosi, si adagia su facili logiche di traino nella catena di valore, si inserisce in percorsi passivi di accesso a integrazioni salariali lunghe, dolorose e sconnesse dalla formazione, non favorisce la ristrutturazione efficiente e la digitalizzazione per competere, resta schiacciata su un nanismo produttivo che invoca solo e sempre protezione statale.

E qui viene a crearsi il circolo vizioso: una contrattazione debole determina una debole innovazione aziendale che, a sua volta, non permette di sviluppare un nuovo modello retributivo. Per avere un buon mercato del lavoro le imprese debbono essere spinte a innovare con una continua rincorsa, non tra salari e prezzi, come nel modello inflazionistico, ma tra retribuzioni e innovazione. La deviazione da questa regola generale (retribuzione vs innovazione) può essere giustificata per un tempo limitato e per uno scambio politico che sia chiaro a tutti, volendo richiamare l’insegnamento di Ezio Tarantelli.

Poniamoci in modo costruttivo anche di fronte a questa sfida ulteriore, dovuta alla crisi energetica. Per avere dinamiche retributive più in linea con il costo della vita, dobbiamo superare l’insufficiente articolazione tra livelli contrattuali, che ormai da troppo tempo e in molti settori va a scapito del livello decentrato. Si deve fare una convinta azione di chiarimento sull’eventuale non auspicabile intervento del legislatore nella materia del salario minimo. Bisogna liberare la struttura retributiva dal peso degli automatismi, collegando lo sviluppo alle componenti retributive che misurano la produttività o che sono rapportate ai risultati o all’innovazione organizzativa. Si deve procedere con celerità sul riordino degli inquadramenti professionali, scindendo definitivamente le dinamiche classificatorie da quelle retributive legate alla progressione gerarchica nonché attivando percorsi formativi certificati che premiano il merito. È arrivato il tempo opportuno per rafforzare le funzioni negoziali delle rappresentanze dei lavoratori a livello aziendale, collegando meglio tali istituzioni alle organizzazioni di riferimento.