di Ciro Cafiero

Sono già passati 136 anni dal 1° maggio del 1886, quando i lavoratori di Chicago pagarono con la vita il diritto a una giornata lavorativa dignitosa. Era già stata approvata la legge dello Stato dell’Illinois che aveva introdotto la giornata lavorativa di otto ore, ma la cultura del lavoro non era ancora pronta a questo cambiamento.

Sono passati 75 anni dall’eccidio dei contadini di Portella della Ginestra. Era il 1° maggio 1947.

Da allora sono state approvate una moltitudine di importanti leggi a tutela del lavoro, alcune, come lo Statuto dei Lavoratori e la Riforma Biagi, ne sono diventate pietre miliari. Soprattutto si è evoluta la cultura riformatrice del lavoro. Eppure, il lavoro, in molti casi, resta conflittuale, precario, per pochi, povero, nero, discriminatorio, privo di adeguate garanzie.

Come è stato possibile che, in così tanto tempo, né i cittadini né i loro legislatori siano stati in grado di trovare una soluzione al problema?

Il bias sta nella domanda che ha animato gran parte delle azioni correttive, sempre concentrata sul “come” tutelare l’esistente, ma raramente pensata sul “cosa” e sul “per chi”. L’impalcatura dei diritti è stata costruita sul lato esteriore del lavoro. In altre parole, si è sempre guardato al lavoro come fosse solamente un’attività, impressa da una forza, necessaria per compiere uno spostamento. Un’attività umana come un’altra che si accompagna alla vita. Sono sempre mancati i tentativi di disvelare e preservare il lato interiore del lavoro, il suo senso autentico.

Lo abbiamo ripetuto spesso sulle pagine di questa rivista: il termine “lavoro” deriva dalla radice sanscrita lahb, che indica un’attività preordinata a “conseguire ciò che si desidera”. Il lavoro sarà “salvo”, dato nella sua piena potenzialità e al riparo da soprusi e sfruttamenti, quando sarà considerato davvero come uno dei modi più importanti di cui la persona dispone per attingere la felicità, come lo definiva Primo Levi. Non occorre costruire sovrastrutture sul lavoro, ma ricercare la sua dimensione autentica.

Nella ricerca del significato profondo del lavoro, siamo guidati da due bussole.

La prima è la Costituzione, che ha riconosciuto al lavoro la natura di strumento di autorealizzazione della persona nel contesto sociale, capace di elevare a dignitosa l’esistenza. Un luogo, anche relazionale, in cui la persona fiorisce nell’incontro con gli altri. Anche il salario può servire ad attivare questo processo e, per questo, deve essere giusto. Si tratta del c.d. principio lavorista che trova cittadinanza agli articoli 1, 3, 4 e 36 della Carta dei diritti. Quando i padri costituenti si sono trovati a decidere su cosa fondare la Repubblica, grazie all’intervento di Giuseppe Dossetti, hanno scelto di fondarla “sul lavoro” e non sui lavoratori. Questo ne testimonia l’importanza e la centralità, sia per lo sviluppo della persona che per la sussistenza della società democratica.

La seconda è la Dottrina Sociale della Chiesa, che si struttura anche per tutelare i lavoratori e il significato più nobile del lavoro. Nel 2013, con l’esortazione Evangelii Gaudium, papa Francesco ha definito il lavoro con quattro termini specifici: “libero, creativo, partecipativo e solidale”. Solo il lavoro aggettivato è dignitoso.

Animato da questa visione, il 1° maggio 1955, papa Pio XII ha istituito la festa di San Giuseppe lavoratore per la Chiesa cattolica.

Nelle Sacre Scritture, l’artigiano, come lo era San Giuseppe, è il padre che rende partecipe del suo lavoro il figlio, con cui si relaziona e “fa squadra”, a cui trasmette la sua arte, offrendo, attraverso un gesto di solidarietà, un’ancora di salvezza.

La dimensione solidale e partecipativa del lavoro è quella esaltata dall’enciclica Fratelli tutti. La Laudato si, con uno sguardo olistico, vede nell’intreccio fecondo tra persona, lavoro e territorio lo snodo fondamentale dell’esistenza umana. Il lavoro è opera di con-creazione secondo il progetto divino del Creatore e, per questo, libero e creativo.

I tempi sono maturi per incamminarsi verso la meta.

Durante la pandemia, il lavoro è stato un ponte, seppur virtuale, verso l’altro. Nonostante le dure condizioni, rimaneva il desiderio di ricostruire partendo dal rapporto con i propri colleghi.

Imprese, sindacati e lavoratori hanno compreso che solo l’unione può vincere sfide importanti, come quelle del Covid. Le relazioni industriali hanno riacquistato centralità. Per esempio, grazie ai Protocolli sulla Sicurezza, sottoscritti tra Governo e parti sociali, è stata garantita la sicurezza dei lavoratori. L’impresa, grazie alla partita che ha giocato sul terreno del green pass, è tornata ad essere “sentinella del territorio”, di olivettiana memoria, e garante della sicurezza dell’intera collettività e non soltanto di quella aziendale. La giurisprudenza ha esteso alcune importanti tutele anche ai lavoratori precari, come i riders.

Tuttavia, occorre uno sforzo ulteriore perché questo sentimento di alleanza non si dissipi e possa trasformare i luoghi di lavoro in comunità. Per farlo, occorre tutelare la centralità della persona con politiche cucite a misura dei bisogni reali, come quelle di diversity e inclusion. Occorrono politiche di welfare in grado di promuovere la conciliazione di vita e lavoro. Lo smart working ne è un formidabile strumento: i lavoratori giovani, dopo aver toccato il dolore e la morte con mano a causa della pandemia, chiedono condizioni lavorative più umane per non dimettersi.

È sufficiente un dato per capire come il mondo del lavoro è cambiato: negli Stati Uniti, circa 47 milioni i giovani tra i 26 e i 35 anni hanno abbandonato il posto di lavoro mentre in Italia, secondo una ricerca dell’Associazione Italiana dei Direttori del Personale (Aidp), il fenomeno ha interessato circa il 60% delle aziende.

Come trovare una soluzione? Promuovendo relazioni industriali “concertative” e una gestione partecipativa dell’impresa secondo il modello dell’articolo 46 della Costituzione. Al Paese servono politiche per l’occupazione in favore di donne, giovani e anziani, ma per farlo bisogna ripensare un nuovo Statuto di diritti basilari comuni.

Quando il lavoro sarà un luogo in cui essere felici, non sarà più conflittuale, precario, povero, nero, discriminatorio e privo di adeguate garanzie.

Il 1° maggio è un’occasione importante per ricordarci le sfide a cui siamo chiamati. E la sfida più grande è quella di “salvare” il lavoro.

Anche così, sarà onorata la memoria di quei lavoratori che, molti anni fa, sono morti nel tentativo di “salvarlo”.