Mariella Enoc, è la Presidente dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù. Dopo gli studi classici e in medicina si è occupata con continuità dell’amministrazione e della gestione di strutture sanitarie. Dal 2012 è procuratore speciale dell’Ospedale Valduce di Como, e lo è stata per dieci anni dell’Ospedale Cottolengo di Torino. È stata presidente di Confindustria Piemonte dal 2008 al 2012, attualmente è membro del consiglio di amministrazione della Fondazione Don Gnocchi e presidente della Fondazione ISMU.

Presidente Enoc, la ringraziamo per aver accettato di dialogare con noi dopo il nostro incontro di formazione in cui erano collegati tanti giovani provenienti da molte parti del Paese. Iniziamo dall’esperienza di questo anno di pandemia: cosa ha visto accadere all’interno delle corsie degli ospedali?

«È stato un anno di solitudini, e un momento di confronto come questo assume un’importanza tutta nuova. I giovani hanno sofferto moltissimo, stanno vivendo delle crisi tremende: suicidi continui, disturbi dell’alimentazione aumentati del 40%, e lo stesso si può dire anche per ragazzi non giovanissimi e più adulti. Da molti anni non si manifestavano più pandemie, da molti anni non c’erano più pesti. Perlomeno nel nostro mondo occidentale, in altri Paesi ci sono sempre state. L’Aids in Africa, per esempio, è stata una vera pandemia, ma se ne è parlato poco perché è lontana, perché non ci riguarda da vicino. Noi in Occidente pensavamo di non ammalarci quasi più e che la vita si allungasse, non eravamo assolutamente preparati a un evento di questa portata. Questa è stata la scossa che ci ha dato. Anche nei medici, nei paramedici e in tutti coloro che lavorano in ambito ospedaliero è cambiata la percezione del tempo, la consapevolezza dei nostri limiti; soprattutto è cambiato il nostro rapporto con la morte. La morte nella nostra cultura è diventata un fatto quasi marginale che si vuole nascondere o eliminare. Inoltre, si muore e si cerca di morire soli. Non è più un fatto sociale, è diventata un “accadimento” quanto mai individuale e personale. Ma con il Covid abbiamo assistito a una morte dichiarata. Tutti la vedevano: è stata la morte di una parte della società. Questo è stato lo sconvolgimento. Non soltanto l’emotività di narrare ciò che accadeva, ma anche chiederci quali sono le nostre responsabilità di fronte alla possibilità che nuove epidemie si sviluppino e che nuovi virus strani compaiano. Il covid-19, in questo senso, ci chiede anche una responsabilità personale. Questa esperienza, diminuendo la tecnicalità, ha fatto bene ai medici e agli operatori sanitari perché ha aumentato in loro la conoscenza globale di cosa significhi salvare una persona. Sono dovuti andare in pronto soccorso medici che non erano abituati, come internisti e psichiatri, e grazie a questa esperienza hanno ritrovato la loro vocazione medica globale. Hanno ritrovato il tu per tu con la persona da curare e questo ha fatto in modo che la medicina diventasse più olistica. Non c’era più soltanto un organo da curare, ma una persona con tutte le sue difficoltà, comprese quelle psicologiche, quelle della solitudine del malato».

Lei, invece, dalla sua posizione come ha vissuto questa esperienza?

«Io ho vissuto il periodo del Covid in maniera un po’ particolare, l’ho vissuto in seconda linea. Non l’ho vissuto in mezzo ai malati, questo non è il mio lavoro. Il mio lavoro è stato far sì che il sistema funzionasse e che tutti potessero avere dei percorsi non confusi. Oltre al Bambino Gesù di Roma mi occupo di un ospedale di Como, il Valduce, un ospedale per adulti, un ospedale in cui il Covid ha cambiato veramente la forma della struttura. Quando il 3 giugno, dopo il lockdown, sono tornata a Como, l’ospedale doveva essere completamente riorganizzato. Al Bambino Gesù abbiamo fatto un hub per tutti i bambini e tutti gli adolescenti del Lazio completamente dedicata al Covid, mentre abbiamo lasciato Covid-free tutte le altre sedi, soprattutto quella del Gianicolo dove si è continuata a fare interventi e terapie di altissima specialità. Ci siamo offerti di andare a prendere i bambini nelle regioni dove non potevano essere operati, siamo andati a Bergamo, Brescia e anche in Turchia a prendere un midollo. Abbiamo dato questa doppia disponibilità. Certamente ero sul campo e mi sentivo sul campo. A Roma ho passato tre mesi senza praticamente uscire dall’ospedale, mangiavo assieme agli operatori sanitari pranzi riscaldati al microonde. Stavamo insieme cercando di non parlare di malati e di Covid, si cercava di slegare il pensiero e si cercava di fare anche delle riflessioni di tipo diverso. Sono esperienze importanti. Tutti i giorni mi fermavo con gli infermieri, mi fermavo anche io nella retrovia di questa battaglia, la sentivo, la percepivo».

Lo stato pandemico ha reso evidente la complessità dell’organizzazione del sistema sanitario: multidisciplinarità, competenze centrali e territoriali, formazione e ricerca. Secondo lei, tenendo conto della complessità della gestione delle strutture deputate all’assistenza sanitaria e degli interessi che vi sottendono, ci sono margini per pensare che riformare il sistema sanitario nazionale sia in qualche modo un percorso anche partecipato per la costruzione di una società più equa e solidale?

«Una società equa e solidale non la fa la politica da sola, la facciamo tutti insieme, soprattutto coloro che si vogliono impegnare in una profezia nuova, nel vedere la politica veramente con un’attenzione a 360° su tutte necessità che ci sono. Credo che per prima cosa sia importante il riconoscere che il sistema sanitario italiano è uno dei sistemi sanitari più belli, più riusciti, più importanti al mondo. Nessun sistema sanitario ha la capacità universalistica di cura che ha quello italiano. Come tutte le cose non può essere perfetto, ma certo ha avuto un’ambizione grandissima. Dopo più di 40 anni, alcuni cambiamenti devono essere fatti perché è cambiata la società ed è vero che si faceva fatica a farli. Improvvisamente la pandemia ci ha fatto capire che non si potevano più rimandare. Purtroppo, la politica pecca di una visione troppo immediata dei problemi: oggi c’è questo problema per il cittadino, io rispondo (o credo di rispondere) così il cittadino poi mi riconosce. Il guardare sul lungo termine, spesso anche in termini elettorali, non aiuta, ma forse abbiamo capito che è necessario mettere risorse in sanità, controllare bene come queste risorse sono spese, così come controllare come vengono spese le risorse per la ricerca scientifica. Non si possono avere istituti di ricerca scientifica sempre più numerosi senza capire bene cosa stanno producendo, e quindi riducendo le risorse per ciascuno, anche di quelli che davvero si impegnano di più. Ancora una volta siamo nel campo del “accontentiamo tutti così stiamo tutti bene”, ma, in questo caso, non si può accontentare tutti. Un altro punto che merita una riflessione pubblica per una riforma più organica è quello legato ai medici di famiglia. Sono bravissimi medici, dei professionisti che, però, dopo anni hanno perso il rapporto che avevano con un certo tipo di cura e di ricerca. Bisogna farli tornare nelle realtà, hanno bisogno di discutere con altri colleghi, di mettersi in rapporto con loro; ecco perché forse è anche giusto che i medici di famiglia abbiamo degli studi professionali condivisi dove non soltanto si dividono le spese, ma mettono in comune le loro competenze. Ecco, io mi auguro che la riforma di alcuni aspetti del nostro sistema sanitario diventi un discorso di comunità e non di possesso, di territorio, perché la comunità è diversa dal territorio. Io spero che questa riforma che deve andare in atto, cui si accompagna la capacità della telemedicina e della telediagnosi, possa veramente svilupparsi».

Durante quest’anno si è sentito parlare di “povertà sanitaria”, ovvero la difficoltà ad accedere a farmaci, esami e cure specifiche. Come si può venire incontro a questo problema?

«Il problema non è solo la mancanza di determinate prestazioni su un territorio, ma c’è un altro tipo di povertà: quella di molte persone che oggi non possono permettersi neppure di pagare il ticket. Forse non ne abbiamo coscienza (perché il cibo è la prima cosa a cui tutti pensano) ma questa povertà esiste ed è molto diffusa. Riguarda moltissime giovani famiglie che hanno figli con gravissimi disturbi neuropsichiatrici, che veramente distrugge le famiglie e, in questo senso, il territorio si impoverisce. C’è poi la povertà delle fasce molto emarginate. Per esempio, noi andiamo nei campi Rom con dei pulmini ambulatori e lì curiamo i bambini. La tragedia di queste persone è l’estrema emarginazione, nessuno le vuole veramente vedere perché tutti le vedono solo come un problema che bisognerebbe eliminare. Io stessa l’ho visto con i miei occhi: una volta domandai ad un ragazzo che zoppicava perché non venisse in ospedale a fare una lastra e la sua risposta è stata: “Mio papà è in prigione e mia mamma è agli arresti domiciliari, nessuno mi può accompagnare”.
Io credo che la sanità e la salute siano un bene comune di cui tutti siamo responsabili. La responsabilità consiste anche nel non guardare alle risorse con egoismo, pretendendo che il sistema sanitario nazionale, che pago con le mie imposte, mi dia tutto. Questo è un egoismo che è nato nei decenni scorsi e che ci ha portato oggi ad avere meno risorse da destinare alla salute. Come sempre, prima di rinnovare i sistemi bisogna rinnovare le persone, bisogna fare capire alle persone che loro sono responsabili. Dobbiamo ricordarci che la scienza è la più alta forma di carità della cura, mentre accade ancora che la sanità sia luogo di corruzione. Dove girano molti soldi è il posto più facile per corrompere ed essere corrotti. Mi spiace dire una cosa così forte in un momento in cui tutti hanno fatto grandi sforzi per curare ma, sotto sotto, questo male esiste ancora. La salute è un bene comune che diventa tema di mercanteggiamento, non lo dovrebbe essere e invece, purtroppo, lo è».

Forse per affrontare povertà, corruzione e difficoltà di gestione dei servizi occorre ritornare ad una dimensione umana della medicina. Lei che idea ha della relazione di cura?

«In quarantacinque anni che faccio questo mestiere ho visto la medicina cambiare profondamente: è cambiato l’approccio al paziente, sono nate altre forme di assistenza. La scienza oggi ha fatto veramente grandi progressi, forse illudendo anche un po’ che la morte non ci sia più. E questo è un altro mito da sfatare perché la scienza sta portando soluzioni ad alcune malattie ma, come vedete, ne stanno arrivando altre. La scienza ha migliorato la qualità di vita, i nostri ospedali sono ospedali senza dolore, i pazienti, anche quelli oncologici gravi, non muoiono fra le sofferenze, ma li si aiuta affinché la morte sia più serena, più dolce, più accompagnata. In questo ritorna fondamentale la relazione, che non è soltanto tra medico e paziente, ma fra tutta la comunità dell’ospedale e il paziente. Non è soltanto il medico, ma anche l’infermiere, chi fa le pulizie, l’amministrazione e il paziente. È tutta la comunità dell’ospedale che si deve mettere in relazione. Il tempo della relazione, noi lo diciamo sempre, è “tempo di cura”. Purtroppo, questo rischia di confliggere con l’aspetto della sostenibilità, allora in molti ospedali non si favorisce la relazione perché si danno dei tempi per le visite, si danno dei tempi per certi esami, perché questo permette di farne di più e quindi di guadagnare di più. Tutto questo non lo può scrivere una legge, deve prima nascere da una cultura, da una conversione. Quindi la relazione è al centro, ma non la persona al centro, è un centro circolare, è un centro circolare in cui tutti devono sentirsi al centro di questo dialogo, di questo rapporto, anche quando non sono più in ospedale, ma sono nelle case di salute (che mi piace molto di più chiamare, come si sta facendo, case di comunità). Quando sono arrivata al Bambino Gesù ho voluto che i genitori entrassero nella rianimazione. La morte si accompagna e anche questa, a mio avviso, è relazione. La telemedicina è un utilizzo che stiamo facendo tutti, durante soprattutto il lockdown abbiamo usato moltissimo il teleconsulto. La telemedicina sarà utilissima per fare diagnosi concordate con più specialisti e rendere più snelli i tempi e il sistema. Ma non deve mai sostituire il medico. Mai. Perché il medico non deve essere soltanto una figura che parla, ma deve essere qualcuno che esprime empatia con tutto sé stesso».