di Martina Raia

Francesco Malavolta è un fotogiornalista iscritto all’OdG della Calabria, impegnato da oltre vent’anni nella documentazione dei flussi migratori che interessano il nostro continente; gli ultimi segnati da un intensificarsi senza precedenti delle migrazioni stesse. Un lavoro svolto in un contesto spazio-temporale in costante mutamento che lo ha portato a viaggiare lungo i confini di una Europa sempre più blindata e difficile da raggiungere via terra o via mare. Da 10 anni collabora con la Comunità Europea, con varie agenzie di stampa internazionale come Associated Press, nonché organizzazioni internazionali quali UNHCR e OIM.

Grazie Francesco per aver accettato di dialogare con noi. Si può raccontare con le parole, ma anche e forse di più, con le fotografie. Con i tuoi scatti riesci a portare le persone che li guardano e le loro coscienze in quei luoghi di confine e sofferenza, che però delle volte diventano di incontro e di gioia. Con quali parole descriveresti, alla luce della tua esperienza diretta, il tema dei rifugiati?

Mi piace attribuire l’aggettivo straordinario; un’esperienza unica, drammatica, necessaria per dare voce a chi ne ha bisogno: quelle bambine, quei bambini, quelle donne, quegli uomini che scappano. Anche se è un’utopia, spero di non fotografare più persone in fuga, perché si possano interrompere le migrazioni forzate dal proprio paese a causa di guerre, persecuzioni e cambiamenti climatici. Fughe per costrizione e non per scelta. Documentare i flussi migratori dei popoli, mi ha portato ad avere una visione della vita completamente diversa da quella che avevo a vent’anni, quando ero ragazzo non c’era internet e non avevo la possibilità di approfondire. Poi, ho iniziato a parlare con persone che arrivavano da tutto il mondo e questo ha fatto nascere in me una maggiore empatia verso il prossimo, che può essere semplicemente il mio vicino di casa. Ho iniziato a comprendere, entrare con empatia nella storia degli altri, dare un peso a tutte le vite incontrate, che incontro e che spero incontrerò. Sicuramente le immagini svolgono un ruolo molto importante nell’aspetto della narrazione e del racconto, la fotografia ha un impatto duraturo, ci sono delle fotografie che ci ricordiamo per una vita, mentre titoli e articoli non riusciamo a farli nostri a lungo. Dico ai giovani di avere voglia di scoprire, di informarsi tramite libri, saggi, di viaggiare, di usare in modo intelligente il web per ricercare, per confrontare le notizie riportate dai media, per capire qual è la situazione che si vive nei paesi dai quali le persone scappano, per entrare nella vita degli altri, non come spettatori con giudizi affrettati nati dalla lettura dei giornali, ma per accogliere.

I media delle volte ci rimandano l’immagine dell’altro come un pericolo, non raccontando quali siano le cause che portano alla fuga. Quali passi potrebbe muovere il mondo dell’informazione per ribaltare questo modo di agire, apportando un contributo originale al dibattito politico?

Una grande responsabilità è in mano al mondo dell’informazione, che non approfondisce le storie dei singoli. Purtroppo, quasi tutti i giornali, usano termini che non fanno bene, si soffermano sulla situazione nazionale, descrivendola in maniera emergenziale, attraverso numeri, statistiche, con titoli non etici ma scritti solo per attirare l’attenzione dei lettori. C’è una narrazione sbagliata, spesso voluta, che crea una sensazione di invasione e porta a una paura non giustificata. Si cambia con le storie. Sarebbe molto importante approfondire, parlare della vita delle persone, non fermarsi allo spazio temporale che riguarda il viaggio in mare, tra la richiesta di aiuto o il naufragio dove ci sono delle vittime, il soccorso e poi la polemica sullo sbarco nel porto di approdo. Si dovrebbe ricordare che i rifugiati sono distribuiti in modo non omogeneo nel mondo: la maggior parte vive in paesi confinanti con i loro paesi d’origine e in paesi in via di sviluppo. Conoscere il prima e considerare la vita di quelle persone dopo; è bello sapere che si inseriscono nella nostra società e collettività, la maggior parte anche abbastanza velocemente e in maniera costruttiva.

Immaginiamo i rifugiati come un’unica massa, dimenticandoci che ci sono delle storie, dei nomi dietro quei numeri. Quale sensibilità dovrebbe avere l’Europa nel parlare di integrazione?

Non si tratta della sensibilità che deve mostrare l’Europa, in questo caso soprattutto in forma politica, ma la sensibilità che riguarda ogni singolo cittadino verso persone che sono costrette a scappare, lasciando le proprie case, i propri luoghi, la propria terra per spingersi in drammatici viaggi. Tutti i paesi dovrebbero rispettare il diritto internazionale e vietare i respingimenti illegali, è importante rivedere la burocrazia per ottenere una forma di protezione internazionale, lo status che differenzia le persone può servire per un ricollocamento e per i diritti garantiti: ricordando che una persona per scappare ha sempre una buona motivazione. Quando una storia viene interrotta, per la morte di chi cerca di trovare salvezza, allora lì vuol dire che abbiamo intrapreso una strada sbagliata, lontana dal senso umano e rispetto della vita degli altri.

Quale foto vorresti mostrare a chi si occupa e decide di politiche migratorie all’interno dei Paesi europei?

Io mostrerei i volti e gli sguardi delle persone sofferenti, raccontando le loro vite, spesso interrotte per dei motivi dei quali noi siamo la causa. Adesso si fa politica con la vita degli altri, la cecità europea non permette di comprendere bene il presente: all’interno delle rotte migratorie, l’Europa e l’Italia sono una piccola percentuale a livello mondiale. Non dimentichiamoci che ci sono molte situazioni che ricevono poca attenzione mediatica e politica: sfollati interni, guerre civili, diritti non garantiti. Dove c’è un conflitto, prevalgono l’arroganza militare e politica, imponendo un modello che non rispetta la democrazia e libertà.

Nei tuoi scatti realizzati per la mostra per celebrare i quarant’anni del Centro Astalli, ospitata alla Chiesa di Sant’Ignazio a Roma fino all’8 gennaio “Volti al futuro – con i rifugiati per un nuovo noi”, hai voluto ritrarre i soggetti in primo piano e dietro come sfondo luoghi simbolo della Capitale. Con che sguardo vorresti che i cittadini osservassero la mostra?

Ringrazio il Centro Astalli per avermi dato l’occasione di celebrare con loro i quarant’anni del loro servizio, sempre guidato dai verbi: accompagnare, servire, difendere. La mostra è stata creata volutamente guardando ai volti delle persone che incontriamo nella nostra vita quotidiana, ma di cui sappiamo poco. Ho realizzato gli scatti e con il Centro Astalli abbiamo deciso di stamparli ad altezza d’uomo, in modo che lo sguardo dello spettatore possa fissare gli occhi dell’altro o dell’altra, scrivendo anche pochissime righe sulla loro vita. Ognuno custodisce una storia di sofferenze molto lunga che non basterebbe una vita per raccontarla, quindi, abbiamo scelto semplici frasi che riguardano il loro passato, presente e futuro, ma sempre parole cariche di speranza. E il nome, molto importante perché spesso li etichettiamo parlando della loro nazione o in altri termini non consoni. Ai visitatori della mostra dico di osservare prima di tutto gli sguardi, i volti sorridenti di chi ha sofferto, ma poi ha toccato una terra che gli darà speranza, leggere le loro storie e poi soprattutto ricordare i loro nomi.

Per approfondire il lavoro di Francesco Malavolta di seguito i suoi riferimenti social: https://www.instagram.com/malavoltafrancesco/

https://www.facebook.com/francesco.malavolta.3/

La foto in anteprima è stata scattata da Gregorio Borgia