di Francesco Occhetta
“Natale” è una parola antica come il mondo, ha la sua radice latina in ciò che è natum, “generato”, per questo è una parola potente, così come gli aggettivi natale(m) e nataliciu(m) che significano “ciò che riguarda la nascita”. Come ogni anno, una sola è la domanda che vale la pena di porsi: come vivere il Natale senza ridurlo a un’abitudine? Quattro episodi, perle luminose incastonate tra le righe dei Vangeli dell’Avvento, ci rivelano le condizioni interiori per riconoscere il Natale nel suo pieno significato.
Nel Vangelo di Luca, al cap. 21, siamo invitati a cercare la «Vita fragile e mite» tra la paura e il chiasso della morte che ci circonda. La descrizione è apocalittica, ma il significato attraversa i tempi: «Insorgerà nazione contro nazione e regno contro regno; vi saranno grandi terremoti, e in vari luoghi pestilenze e carestie; vi saranno fenomeni spaventosi e grandi segni dal cielo… Ma ciò vi darà occasione di rendere testimonianza».
L’alto dei cieli, per essere riconosciuto, ha bisogno di ciò che è basso sulla terra per elevare a sé chi lo accoglie. Proprio nella crisi personale e sociale – come, per esempio, la pandemia, le ingiustizie e le disuguaglianze – siamo chiamati a cercare la Vita che nasce da un grembo. Nel Natale la Parola si riveste di carne, un frammento di Logos diviene presente in ogni individuo, l’essenza del Creatore è in ogni creatura.
Nella seconda domenica di Avvento, Giovanni sceglie di cambiare vita, “entra” nel deserto e ascolta il silenzio, che è la condizione per riconoscere la Vita. La solitudine del deserto è abitata dal desiderio di una presenza, e quindi è positiva, e per questo le paure vengono vinte. Ogni Natale, oggi come allora, deve fare i conti con la storia e la politica che scorrono intorno a questo avvenimento. I Vangeli, come fonte storica, collocano l’avvenimento in un momento preciso della storia, di cui colpisce la potenza dell’annuncio: «All’epoca della 194° Olimpiade; nell’anno 752 dalla fondazione di Roma; nel 42° anno dell’impero di Cesare Ottaviano Augusto, mentre su tutta la terra regnava la pace, nella sesta età del mondo, Gesù Cristo, Dio eterno e Figlio dell’eterno Padre, […] nasce in Betlemme di Giuda». In quel momento – si legge – “regnava la pace”. La pace è un dono e una responsabilità da custodire, non un progetto da realizzare ma una dimensione sociale e politica a cui aderire. L’adesione alla pace è la seconda condizione per fare il Natale.
La terza condizione che prepara il Natale è nel Vangelo di Luca al cap. 3. Tre categorie di persone – folla, pubblicani e soldati – chiedono a Giovanni: «Che cosa dobbiamo fare?». Giovanni risponde rilanciando il verbo “dare”, che diventa sinonimo di amare. Queste sono le sue parole: «Non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici […] chiunque avrà dato anche solo un bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli lo avrà dato a me […] c’è più gioia nel dare che nel ricevere». Dare tempo, presenza, attenzione, denaro, aiuto, affetto, amicizia e correttezza è la condizione per aprirsi al Natale. Chi trattiene, accumula, mentre chi dona, moltiplica.
Infine, la quarta condizione la insegna Maria che incontra Elisabetta. Maria la incontra dopo un lungo cammino per verificare che l’anziana e sterile cugina aspettasse davvero un figlio. In quell’incontro pieno di vita e di un “sì” radicale a Dio, Elisabetta definisce Maria «la piena di grazia». Solo loro ad insegnarci a dire un grande “sì” alla Vita e poi partire è abbracciare il Natale.
«Oh, generoso Natale di sempre!/ Un mitico bambino/ che viene qui nel mondo/ e allarga le braccia/ per il nostro dolore». Alda Merini, in questa sua “pennellata” poetica, ci dice che Cristo nasce per tutti e viene nel mondo per farci rinascere di nuovo. Il gesto del bambino è struggente: allarga le braccia per anticipare la croce, la dolorosa vittoria della vita sulla morte. Il dies natalis, la porta della vita, è attraversare la croce. Perché la vita nasca occorre andare al-di-là di ogni morte, allo stesso modo in cui fa il seme per diventare pianta o il bruco per trasformarsi in farfalla. Vita biologica e morte lottano insieme per essere generate nella vita piena per mezzo del Figlio di Dio, come recita una poesia di Turoldo: «Ma tu non avevi lacrime a noi invece era dato di piangere. Questo, forse, ti sospinse fra noi?»
Tutti hanno bisogno di Vita, ma non tutti scelgono di stare dalla parte della Vita. I violenti, i corruttori, gli usurai, gli ipocriti, i gelosi, gli invidiosi, gli approfittatori e i prepotenti la calpestano continuamente. Spetta invece ai miti e ai giusti, ai deboli e agli indifesi, ai docili e ai buoni, ai laboriosi e agli umiliati, ai miti e ai giusti di ri-generare ogni giorno, nuovamente, il Natale.
Le conseguenze sociali e politiche del Natale non sono difficili da prevedere, è una questione di scelta. Lo ha detto bene il Presidente del Consiglio Mario Draghi alla conferenza stampa di fine anno: «Non esiste progresso o crescita economica senza coesione sociale, se si lasciano indietro i poveri non c’è crescita». Non si tratta di diventare più buoni e bravi, ma più pacificati e giusti nelle parole che usiamo e nelle scelte che facciamo. La luce sprigionata dal Natale illumina la storia per cambiarla. La solidarietà ne è la prova, i regali ne sono il segno, se letti con la stessa logica: nel dono vive il donatore, altrimenti l’oggetto, senza la relazione, rimane solo un po’ di consumo che consuma. Da qualche parte qualcosa di incredibile è in attesa di essere atteso, direbbe Carl Sagan. E per noi questa è la Vita di Dio nel figlio Gesù. In quell’attimo, c’è tutto il nostro per sempre.