di Cesare Morgante

Franco Molteni è medico chirurgo, membro della Società Italiana di Medicina Fisica e Riabilitativa. Consulente Fisiatra Istituto Neurologico C. Besta Milano, è Professore a Contratto di Medicina Fisica e Riabilitativa Università di Padova, Ricercatore Associato CNR Istituto di Sistemi Industriali Intelligenti per il Manifatturiero Avanzato Milano. Membro Advisory Board Scientifico Merz Pharma, IUVO, Hemera. Responsabile Scientifico Attività di ricerca Fondazione Valduce nell’ambito di progetti ricerca nazionali ed internazionali. Membro Comitato Tecnico Scientifico Fondazione Don Gnocchi Co-Direttore Master del Politecnico di Milano: “Rehab Tech: Tecnologie per l’Innovazione in Medicina Riabilitativa e per l’Assistenza”.

 

La robotica, l’intelligenza artificiale e le nanotecnologie hanno e continuano a trasformare il mondo della medicina. Lei che, nella sua pratica quotidiana si trova frequentemente a utilizzare e a produrre nuove tecnologie, crede che tra cinquant’anni avremmo ancora bisogno di medici ed infermieri o si occuperanno di tutto le macchine?

Avremo sempre bisogno di professionisti della sanità che si dedichino alla cura della persona nel suo senso più ampio, ovvero, di ripristino e mantenimento di equilibri vitali biologici, relazionali ed esistenziali. Radicalmente diverso sarà come si andranno a generare nuove modalità di diagnosi, terapia, monitoraggio ed assistenza con tecnologie che avranno caratteristiche progressivamente più avanzate di intelligenza propria, di interazione ed integrazione con l’essere umano. È indispensabile una riflessione profonda sulla formazione dei professionisti del mondo sanitario perché il problema che realmente abbiamo di fronte non è se l’uomo verrà sostituito da una macchina-robot-cervello artificiale, ma è quale uomo consapevole e preparato interagirà-conviverà con macchine-robot-cervelli artificiali, e quali saranno i paradigmi di equilibrio biologico ed esistenziale, di senso della cura e della vita vissuta richiesti e condivisi dalla società, dalla polis

Nelle scuole di medicina il ruolo della bioetica è sempre più marginale. È necessario, però, distinguere cosa è tecnicamente fattibile da cosa è eticamente accettabile. Come si può risolvere questo dilemma?

La bioetica si sta riprendendo spazi e ruoli importanti nelle scuole di medicina, dopo essere stata per anni relegata ad apparente nicchia di pensiero. La pandemia ci ha drammaticamente posto di fronte a dilemmi bio-etici su larga scala in merito a chi, e come, curare con, e grazie, alla tecnologia (da come mantenere in vita una persona a come produrre un vaccino in tempi di impensabile rapidità senza tecnologia). Dilemmi etici che il grande pubblico pensava essere riservati a casi speciali, che potevano interessare poche singole situazioni eccezzionali. Restano aperti grandissimi spazi di discussione su fondamentali indirizzi di ricerca, di utilizzo ed accettazione di possibili risultati dello sviluppo tecno-biologico e bio-tecnologico in atto. Dobbiamo discutere come determinate soluzioni tecnologiche siano eticamente accettabili, piuttosto che discutere se lo siano. Il discorso è complesso e deve vedere attori della società civile aperti al confronto, preparati a cogliere la necessità di condivisione, di revisione e di ricostruzione dei modelli di riferimento. Perché sviluppare la tecnologia è più importante del quanto la sviluppiamo, strettamente collegato al perché dell’esistenza ed a come la vogliamo vivere.

L’articolo 32 della nostra costituzione recita: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti». Ci accorgiamo, nondimeno, che le risorse economiche sono sempre più limitate. Per potere decidere come indirizzare la spesa sanitaria è necessario comprendere la differenza fra salute e malattia.

Tutelare la salute è un problema sociale-economico estremamente complesso, tanto quanto curare le malattie. Sono due facce della stessa medaglia: l’attenzione alla persona. Una vita dignitosa intrinsecamente tutela la salute e dà senso ai periodi di malattia, a prescindere dalla loro durata e qualunque sia la condizione economica in cui si trova la persona. Togliamo allora il velo ipocrita del dibattito sociale sui costi e, a viso aperto, discutiamo dei valori che non sono economicamente quantificabili ma che sono il filo sociale intangibile fatto di condivisione, solidarietà, passione e com-passione che crea le condizioni per definire insieme le priorità di allocazione delle risorse economiche. Se si definissero le priorità di indirizzo del welfare e della ricerca medica sulla base di questi valori probabilmente ci accorgeremmo che le risorse economiche, sia pure non infinite, non sono così limitate, e tuteleremmo meglio la salute di ogni individuo nell’interesse della collettività. Ancora una volta il problema non è economico, è dell’Homo Oeconomicus.

La pandemia ha riportato alla ribalta il tema dei brevetti. Da più parti c’è stata la richiesta di sospendere i brevetti per i vaccini contro il Covid. Addirittura, il fondatore dell’istituto per le ricerche farmacologiche “Mario Negri” Garattini ha suggerito che il sistema dei brevetti come è disegnato oggi è un freno alla ricerca. Quale è la sua opinione?

È ancora il modello sociale di riferimento a condizionare la discussione: la modalità di ridistribuzione della ricchezza, di rispetto dell’opera dell’ingegno individuale e collettivo, la volontà di creare le condizioni perché l’ingegno si esprima, il riconoscimento della libera volontà del fare coniugata con il valore dell’essere persona che scopre nuovi territori di conoscenza e li rende disponibili per la collettività. Temi complessi che non si possono risolvere con discussioni che guardano al passato, ma che al tempo stesso non possono non tener conto delle profonde modificazioni dell’organizzazione della ricerca e di come si sta ulteriormente modificando. L’interesse è collettivo, ma la collettività è costituita da persone che è interesse di tutti stimolare a dare il meglio di sé: e riconoscerne i risultati di cui sono, eventualmente, capaci.

Qualche settimana fa ha fatto notizia un articolo apparso su Nature in cui veniva descritto il recupero della mobilità, dopo quattro anni, di un giovane italiano in seguito all’impianto degli elettrostimolatori presso l’università di Losanna. Professore, si tratta di un “miracolo” isolato?

Non è un “miracolo” isolato: è il frutto di lunghi anni di ricerca e di profonde interazioni fra discipline diverse in diverse parti del mondo. Si sta aprendo un periodo di sviluppo molto importante del settore dell’elettroceutica (la stimolazione elettrica come farmaco) ed anche in questo settore gioca un ruolo importante l’intelligenza artificiale che rende naturale l’interazione fra sistemi artificiali e sistemi biologici di riferimento che si rimodellano e, al contempo, influenzano i modelli di controllo intelligente dei sistemi artificiali che li stanno stimolando. E se queste modalità di cura si applicano per rimodellare il sistema nervoso centrale, una parte di enorme valore simbolico del corpo che ci caratterizza come persone nel nostro pensare-agire-interagire, ecco che aspetti etici fondamentali emergono da dietro le quinte e ci interrogano, ancora una volta, non sul come facciamo ricerca ma sul perché e soprattutto per chi facciamo ricerca.