Se esiste una parola che rimanda a studi liceali e a vecchi libri di storia, questa è certamente impero. Se, d’altro canto, c’è un termine che brilla per attualità quale criterio per discernere il presente, questo è, ancora una volta, impero.

La scena mondiale di questo inizio di XXI secolo constata la strategia di Stati che, portatori di una vocazione imperiale, si protendono oltre i confini nazionali: gli USA, rimasti unica superpotenza mondiale, ancorché minati dalla fatigue imperiale; il Regno Unito, speranzoso, dopo e a causa della Brexit, di rinverdire i fasti del Commonwealth; la Russia, che non accetta il ridimensionamento postsovietico dell’area di dominio del Patto di Varsavia; la Turchia neo-ottomana, che dalla Siria alla Libia spinge i confini aldilà della regione anatolica; e poi l’Iran, che grazie alla rivoluzione islamica estende le sue mire tanto sul vicino Iraq con l’appoggio dei fratelli sciiti, quanto sul lontano Libano, armando gli Ḥezbollāh contro Israele; ed ancora la Cina (Zhōngguó, letteralmente “Paese centrale”), il più grande Paese esportatore e importatore globale di merci, munito di armi nucleari con il più grande esercito del mondo, che, in sintonia con il suo nome, si percepisce, appunto, quale centro politico ed economico dell’Asia, del Pacifico e dell’Africa.

Sul piano della filosofia della politica, quale elemento differenzia gli Stati-Impero dagli Stati-Nazione?

Laddove questi ultimi trovano ragione del loro esistere nel limite del proprio territorio, i primi, invece, si ritengono e si raccontano depositari di una cultura e di una storia che li fanno sentire destinatari di una missione nel mondo. Si registrano al riguardo, oltre quanto detto per la Cina, i propositi di esportare la democrazia nel mondo, o di brandire la capitale Mosca quale Terza Roma, epicentro del panslavismo, o di unificare i popoli dell’Asia centrale, che hanno una cultura, una religione e valori sociali comuni, sotto l’egida iraniana della Grande Persia, in un’insperata riedizione dell’impero multi-etnico che fu al tempo di Ciro II.

Evidenti gli effetti di questa tendenza sul diritto internazionale. Se tradizionalmente la consuetudine dello stare pactis poggia sul rispetto dei due principi fondamentali sanciti nella Carta dell’Onu, l’autodeterminazione dei popoli e l’integrità territoriale, la rinascita degli Stati-Impero fa retroagire il criterio di relazione tra i popoli al principio ottocentesco delle “sfere d’influenza”, d’incerto se non assente fondamento giuridico, basato sul mero principio dell’affermazione della forza.

La sfera d’influenza legittima politicamente ciascuno Stato-Impero a esercitare in modo diretto o riflesso il dominio su quegli “Stati cuscinetto” ritenuti appartenenti, per comunanza culturale, storica o linguistica, all’ambito egemonico di una Nazione superiore, tale per forza militare, etica o economica, dalla quale lo Stato-satellite non può che dipendere.

Ovviamente, tale deriva è del tutto lontana dalla dottrina sociale della Chiesa, per la quale il ricordato principio pacta sunt servanda va rispettato “per evitare la tentazione di fare appello al diritto della forza piuttosto che alla forza del diritto”[1], in modo da creare “un ordinamento giuridico in armonia con l’ordine morale” (cfr. Giovanni XXIII, Lett. enc. Pacem in terris, 277). In esso assurgono a fattori indispensabili per l’ordine pubblico internazionale l’integrità territoriale di ogni Nazione, il rifiuto della guerra e l’osservanza dei patti concordati (cfr. Pio XII, Radiomessaggio natalizio del 24 dicembre 1941).

Il dado pare, tuttavia, lanciato. Al secolo breve, che aveva portato l’umanità fuori dalla storia, sembra ora succedere il secolo lungo dell’eterna sfida, come nella saga di Star Wars, tra Alleanza e Impero, tra resistenza politica e logica di dominio, per proteggere i deboli o per accrescere il potere.

[1] Compendio DSC, 437